Il Post referendum

Cosa sperare che succeda non tanto il 4 dicembre, ma il 5, il 6, il 7 e migliaia di giorni dopo

Un palazzo di Amatrice il 25 agosto 2016 (Carl Court/Getty Images)
Un palazzo di Amatrice il 25 agosto 2016 (Carl Court/Getty Images)

Al Post piacciono gli endorsement: quando siamo sufficientemente convinti che certe cose siano giuste e auspicabili, ci sembra sbagliato tacerlo e non mettere i nostri dieci centesimi sulla possibilità che succedano. Per questo diremo qui anche che cosa vorremmo succedesse col prossimo referendum sulle riforme costituzionali, perché lo riteniamo importante.

La premessa è che la campagna elettorale è stata brutta e deprimente, e ha seminato ulteriore vento in una crescente tempesta. È preoccupante e deludente che quello che dovrebbe essere il più concreto e rassicurante percorso di una società democratica – la discussione pubblica di un cambiamento della Costituzione, e la sua legittimazione o meno con un voto popolare – si sia trasformato invece in un’occasione di peggioramento e svilimento del dibattito, delle relazioni politiche e civili, persino di quelle umane. E in un’esaltazione di tre tratti rovinosi dei tempi presenti: l’enfasi allarmistica e terroristica sul futuro; la falsificazione dei fatti; l’aggressività nei confronti del prossimo e la sua trasformazione in un nemico.
Questa campagna elettorale ha peggiorato tutti, peggiorato le prospettive e mostrato una regressione – proprio mentre ci sarebbe un gran bisogno di segnali opposti – anche tra molti di coloro che si pensano “progressisti”. Da quali parti si sia visto il peggio, è abbastanza irrilevante da valutare, se non si vuole scadere al livello infantile di “ha cominciato lui” o “ma lui di più”: c’è una palese trasversalità del modello ultras. E a farne più le spese sono stati gli invisibili e silenziati italiani che avrebbero voluto accingersi al referendum con l’attenzione e l’investimento sul futuro che merita, e con la misura adeguata: parlando di una riforma della Costituzione di un paese solidamente democratico e delle sue conseguenze terrene, né più né meno. Molte persone perbene voteranno no e molte persone perbene voteranno sì, e non si saranno insultate nel frattempo: è il rumore che non si sente.
Invece è inevitabile a questo punto temere che, comunque vada, del post referendum ci sarà poco da rallegrarsi: l’incarognimento generale – che viene da lontano, riguarda il mondo intero, e non è nato con questa campagna, certo – prevarrà su qualunque risultato auspicato, che sia dare all’Italia nuovi strumenti per essere meglio governata, oppure impedire un aggravamento delle sue derive. Le certezze in questo senso sono l’unica cosa certamente falsa: esistono argomenti e posizioni ragionevoli a favore di entrambe le scelte, e nessuna delle due avrà conseguenze apocalittiche. Sceglieremo inevitabilmente per ipotesi, e probabilmente molto si ridurrà all’inclinazione di ognuno per la prudenza della via vecchia o per la scommessa su quella nuova.
Il problema vero invece è nelle teste, e nel modo in cui conviviamo con gli italiani come noi, e con le persone come noi: e se le opposizioni sembrano finora lavorare per cambiarle in peggio, le teste, non è che la maggioranza abbia costruito o incentivato modelli nuovi e promettenti in questo senso. Non sarà di sicuro un Senato meno affollato a salvare un paese in cui il capo del maggior partito d’opposizione usa come slogan “vaffanculo”, i leader degli altri due fanno propaganda a forza di bugie plateali, il governatore della Campania dà dell’infame a una sua compagna di partito, e molti elettori di ciascuno di loro si sentono legittimati ad adottare le stesse modalità di rapporto con la propria comunità. Per tacere dell’incosciente soffiare sul falò da parte di molti mezzi di informazione, coi piedi bruciacchiati.

Per questo al Post – dove siamo diventati tanti, e quindi meno unanimi e certi che mai sulle cose complesse – interessa fino a un certo punto cosa succederà il 4 dicembre. Ci interessa cosa succederà il 5 e il 6 e il 7 e migliaia di giorni ancora, e l’impegno che sapremo mettere tutti quanti nel far prevalere un sentimento di bene comune che da qualche parte abbiamo: come si è detto spesso ultimamente, siamo simili molto più di quanto siamo diversi, e i modi per dimostrarlo sono tanti e noti. Se poi cominciamo già dall’1, il 2 e il 3 dicembre, meglio ancora: c’è ancora tempo per fare bella figura, in questa campagna elettorale. Tolti gli incattivitori stipendiati – che non sono poi tanti – un paese di incattiviti non promette niente di buono a nessuno: qualunque siano la sua legge elettorale o il suo Titolo V.
Facciamo del nostro meglio.