Cos’è Charlie Hebdo

Storia e copertine della rivista francese attaccata a Parigi, «che unisce la militanza di estrema sinistra a una scurrilità provocatoria che spesso sconfina nell'oscenità»

Mercoledì mattina c’è stata una sparatoria nella sede del settimanale satirico francese Charlie Hebdo, a Parigi: sono morte almeno 12 persone, gli attentatori non sono stati catturati. La sede del settimanale era già stata attaccata con alcune bombe molotov alla fine del 2011 (in quell’occasione era stato attaccato anche il sito del settimanale): Charlie Hebdo è un settimanale noto per le sue copertine, vignette e articoli solitamente molto provocatori.

Charlie Hebdo costa 3 euro ed esce in tutta la Francia. Da anni è considerato vicino alla sinistra radicale e libertaria: le vignette pubblicate sulla rivista prendono spesso di mira la religione (anche cattolica: una volta pubblicarono una vignetta raffigurante il Papa con in mano un preservativo), la polizia e la destra francese. Il New York Times, in un articolo pubblicato nel 2011, lo aveva definito «adorato da molti, insultato da alcuni, ritenuto offensivo praticamente da tutti». BBC ha spiegato che Charlie Hebdo è l’ultima delle riviste di una tradizione «che unisce la militanza di estrema sinistra a una scurrilità provocatoria che spesso sconfina nell’oscenità», nata nel Settecento in opposizione alla famiglia reale francese.

Uno degli scandali più significativi associato alla rivista fu la scelta di pubblicare, nel 2006, le controverse vignette che contenevano una caricatura di Maometto pubblicate originariamente sul quotidiano danese Jyllands-Posten (le stesse che l’allora ministro italiano per le Riforme Roberto Calderoli esibì su una maglietta durante un’intervista al TG1, nel febbraio 2006). L’ultimo tweet pubblicato dall’account del settimanale prima dell’attacco di oggi contiene una vignetta sul capo dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi.

Charlie Hebdo è stato fondato nel 1970: la rivista esisteva già in varie forme e titoli dal 1960, quando era stata fondata dai giornalisti satirici Georges Bernier e François Cavanna col nome di Hara-Kiri. Nel 1970 la redazione fu costretta a cambiare nome in Charlie Hebdo dopo che pubblicò un numero dal titolo “Tragica danza a Colombey, un morto”: il riferimento era a due eventi di cronaca accaduti quella settimana, cioè un grave incendio a una discoteca che uccise più di cento persone e la morte di Charles de Gaulle (che viveva a Colombey). Il nome “Charlie” era riferito al fatto che il settimanale pubblicava le strisce a fumetti dei Peanuts, il cui protagonista è Charlie Brown. Hebdo è invece l’abbreviazione di hebdomadaire, “settimanale”.

A causa delle scarse vendite, però, Charlie Hebdo chiuse nel 1981. Ha riaperto nel 1992, sotto la direzione del giornalista Philippe Val, che si è poi dimesso nel 2011 per andare a dirigere il canale radio France Inter. Da allora il settimanale era diretto dal fumettista Charb – lo pseudonimo del 47enne Stéphane Charbonnier – che è stato ucciso durante l’attacco di oggi. In questi anni Charlie Hebdo ha ospitato i disegni di alcuni dei vignettisti più famosi della Francia, tra cui Georges Wolinski, uno dei più celebri disegnatori satirici francesi dell’ultimo mezzo secolo. Negli ultimi anni, fra le altre cose, Charlie Hebdo ha ottenuto molte critiche tutte le volte che ha pubblicato vignette o articoli satirici riguardo l’Islam e Maometto, il profeta venerato dai musulmani. Nel 2011 la sede di Charlie Hebdo fu fatta esplodere in un attentato: il numero uscito il giorno dopo l’attacco mostrava un disegno di Maometto che spiegava che avrebbe inflitto cento frustate a chi non fosse “morto dal ridere” leggendo la rivista.

Dentro ogni foto, il tema e la traduzione di ogni copertina.

Charb, il direttore di Charlie Hebdo, ha sempre difeso la rivista spiegando di avere il diritto di prendere in giro chiunque: in un’intervista allo Spiegel aveva precisato comunque che il settimanale «prende in giro solo una forma particolare di estremismo islamico». Charb, che sosteneva spesso che «un disegno non ha mai ucciso nessuno», in quell’occasione aveva detto che la rivista «non è responsabile di quello che avviene in altri luoghi, solo perché noi, qui, stiamo esercitando la nostra libertà di espressione nei limiti consentiti dalla legge».