Come eleggere un Presidente della Repubblica

1. Vietato pensare a governi e riforme. È stata la dannazione di Pierluigi Bersani, che fra tanti errori commessi nel 2013 ha pagato soprattutto l’aver fatto coincidere con la partita del Quirinale – per di più da segretario del partito di maggioranza relativa – quella sua idea fissa del “governo di cambiamento” che era stato bocciato nelle urne delle elezioni politiche e che il leader del Pd cercava di resuscitare con la manovra politica. Prima ci fu la candidatura di Franco Marini, con l’obiettivo trasparente di ottenere da lui l’incarico pieno che Napolitano aveva negato a Bersani e che era stato congelato; poi il catastrofico “ripiego” su Prodi, che venne letto non solo come il disperato tentativo di ricompattare i parlamentari del Pd sul nome del fondatore dell’Ulivo (sorvolando su quanto il suo nome fosse ancora divisivo tra di loro: vedi oltre), ma anche come lo spericolato tentativo di trovare nel segreto delle cabine di Montecitorio quella maggioranza appunto “di cambiamento” che era illusoriamente apparsa poche settimane prima al momento di eleggere i presidenti di camera e senato (vedi oltre).
Con questo capolavoro al rovescio, Bersani espose se stesso e i suoi due candidati ai colpi di chi – ed erano davvero tanti nel Pd, non solo gli avversari del segretario – consideravano fuori tempo e fuori luogo l’insistenza bersaniana per palazzo Chigi.

Che cosa insegna questa lezione a Matteo Renzi, pur nelle condizioni attuali non paragonabili a quelle del 2013?
Insegna che, per quanto sia logico impostare almeno in premessa la maggioranza per il Quirinale sul perimetro del “patto del Nazareno”, è meglio andarci leggeri e sfumare quanto più possibile questa inevitabile coincidenza. Ci vogliono equilibrio ed equilibrismo: il candidato dovrà essere in sintonia con la strategia dell’accordo bipartisan sulla riforma delle istituzioni (questo del resto significa l’auspicata continuità rispetto alla presidenza Napolitano), senza però essere coincidente né identificabile con esso altrimenti troppa gente avrà voglia di affondarli entrambi.

Nessun figlio (o figlia) del Nazareno. Il che non vuol dire l’opposto: se c’è un’opzione da togliere senza dubbio dal tavolo è che il Pd possa eleggere il successore di Napolitano insieme a coloro che di Napolitano sono arrivati a chiedere l’impeachment (in maniera formale, non a chiacchiere come fecero Brunetta e Minzolini). Del resto Beppe Grillo ha “chiamato fuori” i suoi con largo anticipo, dunque non esiste neanche la tentazione.

2. Prima di tutto, l’unità del Pd. È di gran lunga il primo requisito vitale di qualunque candidato in questo momento, per motivi che neanche vale la pena di rilevare visto che considerando anche i delegati regionali saranno democratici almeno 440 grandi elettori su 1009 (il quorum per l’elezione al quarto scrutinio sarà di 505). Quasi tutte le scelte renziane degli ultimi due mesi vanno rilette alla luce di questa strettoia (compreso, a un certo punto, il tentativo di far slittare sine die le primarie in Liguria, poi abortito per l’insistenza dei liguri: si vede ora chi avesse ragione…).
E le possibilità di tutti i nomi in campo vanno valutate sul parametro della compattezza dei gruppi democratici. Allora ci vorrà memoria, per ricostruire su per li rami delle storie del centrosinistra italiano i ruoli di ciascuno, amicizie e inimicizie, convenienze e allergie.

Per esempio, per quanto paradossale possa sembrare, c’è chi pensa che Walter Veltroni sia ancora penalizzato dalla decennale ostilità dalemiana; che Dario Franceschini sia all’opposto avvantaggiato dalla capacità di tenere insieme tutti gli ex popolari; che Giuliano Amato sia fuori gioco per aver lavorato decenni fa con Craxi. Storie dell’altro secolo? Già, ma non ci si stupisce di nulla ricordando che cosa tanti ex diessini erano ancora capaci di dire contro Romano Prodi la mattina del 19 aprile 2013, a quindici anni dalle guerre puniche tra ulivisti e partitisti, entrando nell’aula di Montecitorio per affondare lui e se stessi.

Oggi Prodi cerca di sottrarsi alla mattanza, ma il suo destino è di restarci sempre impigliato. Condannato oggi a essere candidato da Vendola e Civati esattamente, di nuovo, per dividere e mettere in difficoltà il Pd: il modo migliore per non salire mai, ma proprio mai, sul Quirinale.

3. La popolarità non è richiesta. Naturalmente è un’ottima cosa se un presidente eletto conquista, da subito o col tempo, la simpatia degli italiani. Ma la Costituzione, la più bella del mondo, ha previsto una procedura d’elezione che non contempla il consenso del popolo e deliberatamente affida la selezione del capo dello stato alla laboriosa ricerca di equilibri, accordi e compromessi tra le forze politiche. Se non fosse così vivremmo in un sistema presidenziale, che infatti molti auspicano e almeno altrettanti aborrono.
Senza arrivare a chiedere la proibizione di legge dei sondaggi di popolarità nei quindici giorni precedenti la convocazione delle camere, basta aver chiaro che questi sondaggi non significano nulla, non aiutano il processo decisionale, non possono esser tenuti in alcuna considerazione: fosse dipeso dalla simpatia degli italiani al momento della scelta, non sarebbero mai arrivate al Quirinale persone come Scalfaro, Ciampi, lo stesso Napolitano, e prima di loro probabilmente nessuno degli undici presidenti della repubblica (e in alcuni casi naturalmente sarebbe stato meglio, se non ci fossero arrivati).

Qui c’è l’inganno più insidioso dell’approccio “direttista” di Cinquestelle alla scadenza presidenziale, sorprendentemente non colto a suo tempo da un giurista raffinato come Stefano Rodotà. Così come fu clamorosa due anni fa la resa dei giovani gruppi parlamentari del Pd alle pressioni della loro piazza, reale o virtuale: forse considerando Facebook la propria vera costituency, in tanti abdicarono a una responsabilità difficile e misero la propria scelta “allo scoperto” degli umori di un’indistinta opinione pubblica.

Non è strano che tocchi (e convenga) proprio a Renzi, al leader che più di ogni altro intercetta e sfrutta il senso comune, di rimettere l’elezione del capo dello stato sui binari che piaccia o meno sono i suoi tradizionali: quelli del più puro, anche se meno trasparente, tra gli accordi di Palazzo.

4. Meglio un professionista. Si diceva dell’elezione di Grasso e Boldrini, due anni fa, con un metodo e una maggioranza che poi nella partita per il Quirinale furono prima rovesciati (su Marini) e poi inopinatamente riproposti (su Prodi). A prescindere da antipatie, simpatie, leadership e alleanze politiche nel frattempo cambiate, nessuno nel Pd rifarebbe la stessa scelta. Perché soprattutto a causa della loro estraneità alle dinamiche di Palazzo – inizialmente considerata una virtù, anzi il motivo per cui Grasso e Boldrini vennero scelti – i due presidenti alla fine non sono stati di garanzia né per la maggioranza né per le opposizioni, quando invece questo sarebbe il loro compito prioritario.

Possiamo dare per scontato che Renzi non voglia ripetere l’esperienza per un ruolo che è dieci volte più delicato e importante delle presidenze di camera e senato, anche per lui stesso: almeno su questo punto non c’è da dar retta ai retroscena dei giornali su personaggi a sorpresa, perché anche a un premier decisionista serve un capo dello stato in grado di sbrogliare affari delicati con discrezione ed efficacia.
Dunque, per quanto se ne scriverà ancora, non avremo al Quirinale né scrittori né direttori d’orchestra, né poeti né banchieri né professori d’università e neanche magistrati.

Già i giudici di corte costituzionale li vedo meglio.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.