Tanto alla fine c’è il piano B

Non dovrebbe essere così sorprendente se la direzione democratica di oggi si dovesse chiudere con una sostanziale ampia unità. È passato il tempo in cui il Pd era trattato come un bersaglio per le freccette e il divertimento collettivo era occuparsi delle sue divisioni interne. Sì, la cosa capita ancora, ma nel frattempo altri pezzi grossi della Seconda repubblica hanno avuto destini ben peggiori.

A voler ridurre tutto alla convenienza, si potrebbe dire che nessuno abbia voglia di aprire grandi contenziosi in un partito in testa a ogni sondaggio e che pare avviato, in un modo o nell’altro, a vincere le elezioni entro dieci mesi. C’è invece anche una sostanza, nell’unità di un gruppo dirigente che per anni si è diviso tra fautori di politiciste alleanze con l’Udc, orgogliose e solitarie avventure maggioritarie oppure riedizioni rivedute dell’Unione del 2006. La sostanza – il motivo principale dell’unità odierna – è che tutte queste ipotesi sono state cancellate da un terremoto politico-elettorale che lascia il Pd senza lo storico (e facile) avversario, ma anche senza opzioni sicure per le alleanze. L’incertezza rende il risultato del 2013 più a rischio e obbliga tutti, dal segretario in giù, a reinventare una proposta democratica fatalmente diversa da quelle coltivate per anni.

La cosa più semplice è respingere i ricatti più recenti. Né quello di Vendola-Di Pietro né tanto meno quello dell’ennesimo appello minatorio di Flores provengono da aree politiche in grado di dettare condizioni. Anzi. Vista la minaccia di Sel e Idv («se il Pd non fa subito l’alleanza con noi, andiamo da soli»), viene voglia di rispondere accomodatevi. L’elettorato dipietrista è ormai facile terra di conquista grillina, le sue sorti sono più in mano di Travaglio che in quelle dell’ex pm. Vendola è il migliore esponente europeo di una sinistra post-marxista che, allo scoppiare della più grande crisi contemporanea del capitalismo, s’è fatta da parte e ha consegnato il ruolo di alternativa ai più disparati movimenti anti-sistema: era l’ultima chance offerta dalla storia.

La verità è che l’elettorato del Pd anche se si va restringendo è l’unico in qualche modo “presidiato” in questo momento: una dote sulla quale contare. Tutto il resto, tutto quello che è fuori dal perimetro e dunque è una larghissima maggioranza, appare contendibile, mobile, più liquido che mai. Italiani che (tranne l’eterno zoccolo duro anticomunista) fra un anno non si orienteranno lungo l’asse destra-centro-sinistra, ma secondo un mix di criteri perfino contraddittori fra loro: l’innovazione e la competenza, il ricambio dei gruppi dirigenti e la forza della leadership, l’affidabilità e l’estraneità alla politica. Bersani riconosce che il Pd non può rispondere a tutte queste domande insieme. Teme, giustamente, che qualche operazione che sappia mixare gli ingredienti possa far saltare il banco, e ne individua la regia nei centri del potere economicoeditoriale (oggi vedremo se, come D’Alema, se la prenderà addirittura con «la borghesia italiana»).

Se fosse il tempo delle autocritiche – cosa che non è – il segretario potrebbe riconoscere che oltre a tanti indiscutibili meriti per aver portato il Pd fino a qui, lui un po’ di responsabilità per l’inadeguatezza del partito ce l’ha: non c’era bisogno che arrivasse Pizzarotti per capire i limiti del modello di partito dei circoli e dei tesserati, quello che sovraintende al tradizionale cursus honorum da militante a funzionario, amministratore locale, dirigente nazionale e infine deputato. Ma anche altri modelli, come la cooptazione veltroniana da album delle figurine, hanno fatto il loro tempo. Si va per tentativi. Ci si ritrova a leggere Stefano Fassina che, scuotendosi di dosso gli abiti di rigido socialdemocratico continentale, lancia i meet-up all’americana. Più o meno tutti rimangono attaccati alle primarie, come momento magico del contatto reale col territorio. Solo che la magia s’è perduta nelle pieghe dei ricorsi e delle inchieste a Napoli e a Palermo, nelle scelte conservative e perdenti dei gruppi dirigenti di Genova e Parma: le primarie rimangono irrinunciabili e potenti (la destra tuttora le copia), peccato che a livello locale il partito non sempre sia all’altezza dello strumento.

Da questa incertezza nasce la tentazione di esternalizzare (chiedo scusa per la parola ma il concetto è perfetto) il lavoro che il Pd teme di non saper fare da sé. Non è strano che ci abbia pensato proprio Bersani: lui da molto tempo è un convinto sostenitore della tesi dei limiti del partito, spesso ha spiegato che nella società ci sono spazi di autentica politica che i partiti devono lasciar praticare ad altre forme di organizzazione a autoorganizzazione. La formula gli è tornata utile per uscire indenne (anzi, nella sostanza perfino vincitore) dagli insidiosi passaggi referendari dell’anno scorso, o per aggregare con successo il Pd a fenomeni come la primavera arancione di Milano.

Ora è tentato di riprovarci, a livello nazionale, stavolta addirittura come regista di liste civiche apparentate ai democratici alle quali affidare la missione di competere nel mercato elettorale più mobile, laddove il marchio di partito sarebbe addirittura controproducente. Operazione rischiosa, della quale il Pd potrebbe essere la prima vittima come notano i dirigenti bersaniani che sul punto dissentono apertamente dal segretario. Rischiosa, è vero, ma sempre meno che riaprire davanti agli italiani impazienti il laboratorio dell’alchimista pazzo: una dose di Vendola, due dosi di Casini, uno spruzzo di Fini…

Rimane allora la cara vecchia vocazione maggioritaria, imprudentemente sbeffeggiata nei primi tempi del bersanismo rampante. Andare da soli, sì. Ma non così come si è. Aprire le liste di partito all’esterno, farsi invadere dagli indipendenti (più o meno di sinistra), rinnovare drasticamente i ranghi, abbassare ogni barriera all’ingresso di un Pd che rimane col suo nome e il suo simbolo ma in sostanza trascende in Ulivo, realizzando tra l’altro l’originario sogno prodiano.

Se la prassi fosse prodotto esclusivo delle culture politiche, tutte le anime dell’attuale Pd dovrebbero convergere su questa ipotesi, che però ha due difficili precondizioni: la famosa legge elettorale a doppio turno; e lo scassamento di tutti gli attuali equilibri interni fra componenti, correnti, partiti fondatori, aree, passando per un doloroso ricambio nei gruppi parlamentari. Facile a dirlo, improbabile a realizzarlo nella misura necessaria a convincere la diffidente “società civile”, quella che non s’è ammorbidita neanche davanti al salasso di contributi pubblici che il Pd si è auto-imposto.

Se alla fine tutto dovesse risultare troppo difficile, troppo rischioso o troppo poco credibile, il Pd sceglierebbe la cosa che in definitiva sa fare meglio, e che fin qui gli ha anche fruttato: rimarrebbe fermo.
Fermo col Porcellum (che gli conviene), potendo però dare agli altri la colpa di non averlo voluto abrogare; fermo a sostegno di Monti, prospettando però un dopo-Monti dove a ogni iniquità sociale ed economica si potrà porre rimedio; fermo nel presidio del proprio bacino elettorale, confidando che da tanto agitarsi fra centro, centrodestra, scissioni neomissine, grillini, Todi Due e Montezemoli non esca alcuna nuova formidabile Forza Italia, bensì una enorme frammentazione di sigle e siglette facili da domare ed eventualmente attrarre a sé nella prossima legislatura.

«Non rimarremo fermi», ha detto Bersani, e oggi sicuramente lo ripeterà. Speriamo, perché la stasi non s’addice all’Italia del 2012. Ma tutti coloro che oggi lo ascolteranno sanno dentro di sé che rispetto a questa nuova politica di movimento c’è un bel piano B, che in realtà probabilmente è il piano A.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.