La festa dura poco, ora via verso il voto

Lo sconfitto di giornata, come spiega bene su Europa Francesco Lo Sardo, si chiama Claudio Scajola. Che va ad aggiungersi a Fini e a tanti altri nella galleria di coloro che hanno provato a far saltare il blocco berlusconiano dall’interno. L’astuzia da vecchia Dc ha funzionato finché s’è applicata al piccolo agguato sul rendiconto di bilancio, ma s’è dimostrata poca cosa – nulla è più come una volta – quando Berlusconi ha fatto ripartire il rastrellamento dei voti.

Per il tramite di Scajola svanisce per l’ennesima volta l’ipotesi già tante volte morta e riesumata: il governo di transizione. Che rimarrebbe la soluzione migliore per condurre l’Italia a votare in condizioni più decenti delle attuali, ma si conferma inaccessibile. Non si può fare alcun governo di transizione, tecnico o del presidente, se dall’attuale maggioranza non si liberano forze sufficienti in grado di emanciparsi dal controllo di Berlusconi e Verdini.

Come tutte le fiducie precedenti, anche quella strappata ieri è nello stesso tempo un successo e una gabbia per Pdl e Lega. Quota 316 è sempre alla sua portata, ma per poterla raggiungere la coalizione si deve negare all’azione politica, deve paralizzare qualsiasi movimento, deve militarizzarsi e quindi escludere aperture, manovre, dialoghi, ricambi di leadership interni. In altre parole, tutte le operazioni che potrebbero ridare al centrodestra respiro, vitalità, speranza di sopravvivere alla prova elettorale. Gli ultrà berlusconiani potranno esserne felici, e ieri festeggiavano alla camera, ma chi nel centrodestra sogna per sé un futuro oltre Berlusconi e Bossi non ha nulla da festeggiare.
Anche perché appena due ore dopo il voto la festa era già finita, e ministri e peones piangevano sui draconiani tagli (lineari) imposti da Tremonti a sanità, sicurezza, infrastrutture, ambiente…

Questa situazione porta diritto alle elezioni fra marzo e aprile: non sono una prospettiva allettante per Berlusconi, ma in definitiva la campagna elettorale è l’unica cosa che sa fare, ed è l’unico scenario nel quale rimarrebbe ancora protagonista.

Il Pd ha fatto bene a concordare con le altre opposizioni sulla necessità di una soluzione di governo transitoria, soprattutto per rifare la legge elettorale. Come si diceva, i margini di realizzabilità di questa soluzione sono quasi inesistenti, affidati a un sussulto di rabbia fra i berlusconiani ribelli che ieri sono stati messi nell’angolo e saranno soggetti a vessazioni e lusinghe d’ogni tipo. Difficile affidare una strategia a simili incognite. Dunque ora, come Bersani ha sempre pensato e sperato, c’è più che altro da prendere la rincorsa per le urne.

Con tante incognite, a cominciare appunto dal sistema elettorale: l’attuale Porcellum, per paradosso, per quanto orrendo sarebbe la legge migliore per il centrosinistra per vincere largamente alla camera e per “obbligarsi” a una coalizione con il Terzo polo per avere una maggioranza anche al senato. Proprio per questo motivo ci sarà da vigilare: il centrodestra tenterà qualsiasi colpo di mano per assicurarsi qualche regola vantaggiosa che gli faccia colmare in parte l’attuale irrecuperabile gap nei sondaggi.

Nelle settimane e mesi che verranno Bersani e il Pd avranno davvero la loro prova del fuoco. Fin qui il mantra della segreteria – «stiamo fermi» – ha garantito la tenuta. Ora non basta proprio più, anzi può ritorcersi contro. Occorre rapidamente realizzare il miracolo di trasformare l’unità d’azione parlamentare di questi giorni in quella proposta politica alternativa e ampia di cui tanto s’è parlato: enunciarne la necessità non è sufficiente, bisogna dimostrare di saperla confezionare, con scelte nette che implicheranno la rinuncia a qualche coperta di Linus, e saperla presentare agli italiani con le parole giuste che non possono più essere giaculatorie contro Berlusconi. Se Bersani pensa di essere in grado di compiere questo miracolo, lo dovrà presto dire apertamente e poi passare all’azione evitando di farsi incastrare come a Vasto. Se altri si faranno avanti, tipo Renzi, e sapranno dimostrarsi all’altezza del compito e più efficaci nel portarlo a successo, ben vengano.

In un angolo di questo enorme problema c’è la questione del rapporto con i radicali. Veltroni era penosamente inciampato nell’alleanza con Di Pietro ma aveva avuto una visione ampia, pluralista e generosa del Pd quando aveva insistito perché vi fossero inclusi i radicali.

Quello rimane il Pd che vorremmo, con dentro anche di più. Ma occorre ammettere che l’esperimento non riesce a funzionare: la rivendicazione dell’identità e della diversità è troppo conculcata nei ceti politici sopravvissuti alla Prima repubblica, di cui i radicali sono addirittura i più coriacei.

Tutti, non solo loro, si sentono ancora piccola patria proporzionale, e mentre declamano paroloni su contaminazioni e maggioritari all’anglosassone si muovono in realtà da partitini e correnti. Incidenti come quello di ieri e dell’altroieri alla camera scaturiscono dalla collisione fra irriducibili culture micropartitiche (in questo caso, radicali e postdemocristiani) che fanno grande rumore e danno.

Di un vero bipolarismo e di un vero Partito democratico, questa è l’impressione, potremo parlare solo quando saranno state pensionate un paio di generazioni di attuali politici, e dei loro simboli sarà rimasto solo un rispettoso ma il più sbiadito possibile ricordo.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.