Bussando alle porte di Houston, Texas

Sono le otto e un quarto di sera, è buio pesto, ho le braccia divorate dalle zanzare e le bolle sotto i piedi visto che cammino da stamattina alle 10. Sono in un quartiere residenziale di Houston, in Texas, uno di quelli protetti da un cancello – gate community, si chiamano – che non saprei indicare su nessuna mappa, figurarsi dare a voce indicazioni a qualcuno così generoso da venirmi a prendere, e se non avessi Google Maps sarei probabilmente già morta. Nelle ultime dieci ore ho bussato a circa duecento case – porta più, porta meno – e l’ho fatto in veste di volontaria della campagna di Beto O’Rourke, candidato Democratico al Senato contro Ted Cruz.

In dieci ore e duecento porte di quella che in gergo tecnico si chiama canvassing ho incontrato di tutto, l’America vera, direbbe qualcuno, per differenziarla da quella di città come New York, dove vivo da cinque anni e che ancora non ho capito se amo o se odio o se forse tutte e due, come è inevitabile succeda con le relazioni belle, ma anche molto complicate e faticose.

In dieci ore e duecento porte, dicevo, ho visto: immigrati vietnamiti ultra sessantenni che non parlano una parola di inglese e che tu ti chiedi come diamine abbiano fatto a vivere tutta la vita in un paese senza impararne mai la lingua, ma avendo abbastanza successo professionale da comprarsi una casa in un quartiere residenziale; sostenitori di Ted Cruz che mi hanno aperto la porta mettendo bene in mostra la pistola nella fondina per poi richiudermela in faccia al grido di “non si uccidono i bambini” (e giuro che ci ho messo un po’ a capire che cosa intendessero, ho pensato ai bambini messicani nelle gabbie, i bambini vittime delle sparatorie, i bambini vittime del lavoro nero, boh? Poi me l’hanno spiegato: intendevano che loro sono contro l’aborto); afroamericane fumatissime che giustamente disturbate durante una festa domenicale a base di birra e carne alla griglia mi hanno risposto: “We are rasta. We don’t vote” che, ammetterete, va dritta prima in classifica come scusa da usare per evitare qualsiasi futura scocciatura nella vita, forse superata solo dalla tizia che mi ha risposto: “I don’t vote: it’s against my religion”; un altro sostenitore di Cruz che mi ha aggredito urlandomi in faccia che Beto è un impostore perché quello non è neanche il suo vero nome e a cui non ho avuto il coraggio di rispondere che neanche Ted è il vero nome di Cruz e che in realtà si chiama Rafael ed è addirittura nato in Canada, figurarsi; una signora latina che mi ha aperto la porta terrorizzata e poi mi ha spiegato che pensava fosse l’ICE, l’agenzia governativa che controlla le frontiere, che veniva a portarla via (e se pensate che le politiche di immigrazione di Trump non facciano danni collaterali, eccone uno: c’è gente che ormai vive nel terrore, spaventata, anche se è qui legalmente); una signora afroamericana che solo dopo aver discusso per dieci minuti di controllo di armi – tema per lei importantissimo – mi ha detto: “ah ma Beto è quello contro Cruz! Ma certo che lo voto” e mi ha abbracciata; un numero spropositato di genitori Repubblicani bianchi e ricchi che hanno aperto la porta ignari che io stessi cercando i figli che si erano registrati come sostenitori di Beto; un marito spagnolo che mi ha detto che lui ha votato Beto e la moglie Cruz e per questo sono due giorni che non si parlano; una signora che mi ha abbracciato; un signore afroamericano che mi ha dato il cinque urlando vinciamo, vinciamo, vinciamo.

Se dovessi dare delle percentuali, nel mio personalissimo campione i votanti di Beto sono il 30 per cento, quelli di Cruz il 10 per cento. Il restante 60 per cento è fatto di gente che non ha la più pallida idea di cosa stia succedendo nello stato dove vivono, mandano i figli a scuola, pagano le tasse, comprano case. E sono numeri generosi per difetto, dal momento che il Texas è lo stato con la più bassa affluenza alle urne di tutti gli Stati Uniti. L’America vera, quindi, che è ignorante, chiusa in se stessa, menefreghista. E che non vota. Che è sicuramente vero – vederli chiusi nelle loro belle case protetti da cancelli fa in effetti impressione – ancora di più a noi che siamo italiani, l’impegno civile lo abbiamo nel sangue, ci insegnano da piccoli che votare è un diritto ma è anche un dovere, mastichiamo politica e calcio, calcio e politica. Pensare che in un posto come il Texas – la NASA, i musei, il deserto, il petrolio: insomma, mica uno stato di buzzurri, ecco – la gente se ne infischi di esercitare il più basilare dei diritti è sconvolgente. Come tutte le cose americane però, il problema è anche più complesso. Ovvero: votare in America non è così semplice come da noi.

Intanto questa follia della registrazione: per poter votare i cittadini americani devono prima registrarsi, non basta presentarsi alle urne il giorno del voto. L’altro problema è il documento: negli Stati Uniti non esiste una carta di identità, non serve neanche, basta il Social Security Number, con il quale si fa praticamente tutto, tranne una cosa, votare, perché per quello ci vuole un documento con la foto. Per la maggioranza il documento con la foto per eccellenza è la patente, che infatti loro usano come documento d’identità primario. Ma per avere la patente devi guidare, avere una macchina, e quindi come in quasi tutte le cose americane alla fine si riduce tutto a una questione di classe, razza e soldi: a non poter votare sono quelli che non hanno la patente o il passaporto. Ovvero le minoranze. Questo per dire che il problema di ogni candidato Democratico è appunto quello di convincere una certa parte di elettorato – neri, ispanici, asiatici, giovani – a votare, motivarla abbastanza perché quelli che fino a oggi si sono sentiti cittadini di serie B escano di casa e vadano a farsi anche due ore di coda (altro grande problema del voto americano: le code assurde) per mettere una croce su un nome. Obama ci riuscì con gli afroamericani. Beto per vincere in Texas deve riuscirci con gli ispanici e con i giovani. Con i primi non sembra stia andando benissimo: storicamente sono la categoria che vota meno. Con i secondi invece parlano i dati dell’early voting, cioè le votazioni che si sono concluse venerdì scorso e che hanno visto un aumento del 400 per cento dei partecipanti. Un dato clamoroso imputabile appunto al fatto che Beto sta intercettando gente che non aveva mai votato prima o che è al primo voto. Ce la farà? Difficile dirlo.

Dopo essere stato sempre in svantaggio, gli ultimi sondaggi lo danno alla pari con Cruz. Se ci riuscisse sarebbe un mezzo miracolo, con conseguenze non da poco. Primo, Beto diventerebbe il Democratico più di successo all’interno del partito. Famoso lo è già: i suoi comizi in inglese e spesso anche in spagnolo sono seguitissimi dal vivo e in rete, con milioni di visualizzazioni. Le sue foto con la camicia fradicia di sudore sono già diventate materiale per Halloween, con gente vestita “da Beto”. Le raccolte fondi in città come New York, dove è amatissimo per le sue posizioni liberal, sono state tutte super affollate. Secondo, la sua campagna dal basso, la più grossa nella storia del Texas, diventerebbe materiale di studio. Senza consulenti, senza l’uso di sondaggi, senza neanche un quartiere generale (siccome Beto si muove in continuazione, ha uno staff minimo che lo segue costantemente e una serie di uffici nelle principali città, tutti di egual importanza), senza soldi dalle grandi aziende e dai gruppi di interesse (tra cui l’odiata NRA, la lobby delle armi) ma solo con le donazioni dei privati cittadini, Beto ha già raccolto la cifra record di 70 milioni di dollari. E l’ha fatto mettendo in atto una campagna educata, sempre positiva, dove parlare male dell’avversario è quasi vietato (lo ha fatto solo nel secondo confronto diretto, dando a Cruz del bugiardo) e dove la prima cosa che ti insegnano al training per andare porta a porta è sorridere, trattare tutti con educazione, trasmettere urgenza sull’importanza del voto. Ma soprattutto essere postivi. E camminare, camminare, camminare di quartiere in quartiere, bussando a quante più porte possibile. Da quando sono finiti gli early voting, cioè venerdì sera, l’obiettivo della campagna è raggiungere il milione di porte.

Oggi, mentre scrivo, lunedì sera, non so a quanti siamo arrivati, ma nel team c’è entusiasmo che ce la si possa fare. L’applicazione che usiamo per il canvassing e per raccogliere i dati degli elettori si chiama Polis e negli ultimi due giorni è andata in crash due volte per il troppo uso da parte nostra. Oggi è l’ultimo giorno e si fa canvassing dalle otto del mattino fino alle 6 di sera. Dopo si va ai seggi, a dare sostegno a chi è in coda e magari ci deve rimanere per chissà quante ore. Soprattutto, ci si accerta che nessuno venga mandato via con la scusa che è tardi e non può più votare: i seggi chiudono alle sette, ma chi a quell’ora è in coda ha diritto di votare. Poi si va tutti da Michael’s, un bar trasandatissimo vicino all’albergo che funge da uno dei due quartieri generali di Houston, ad aspettare i risultati di quella che si prevede una lunga e faticosa notte elettorale.

Simona Siri

Vive a New York con un marito e un cane. Fa la giornalista e ha scritto due libri: Lamento di una maggiorata (Tea, 2012) e Vogliamo la favola (Tea, 2013). Segue la politica americana, il cinema e le serie tv. Ama molto l'Italia e gli italiani, ma l'ha capito solo quando si è trasferita negli Usa.