Don’t try this at home (ovvero del perché di Justin Timberlake ce n’è solo uno)

Sembra un secolo fa, ma era solo il 2006. Le case discografiche avevano ancora soldi con cui promuovere i dischi e per l’uscita del nuovo di Justin Timberlake un giorno di inizio luglio imbarcarono una manciata di giornalisti su un volo per Parigi dove si fermarono per ben tre giorni. Io ero tra quelli.

Il primo giorno ci fu l‘ascolto del disco. In una stanza di non ricordo più quale lussuoso albergo, seduti per terra, circondati da gigantesche guardie del corpo di colore, senza cellulari e con la sola possibilità di prendere appunti a matita. Suonarono il disco una sola volta, dall’inizio alla fine e poi stop. Ricordo la prima impressione, istintiva, all’attacco di Sexyback, riassumibile con l’esclamazione: minchia. Sottointeso: accipicchia che disco, non credo alle mie orecchie, questo è un mostro e altre confuse considerazioni contenenti stupore e meraviglia. Va detto che all’epoca su Justin Timberlake ancora pesava, soprattutto in Italia, il marchio di ex ragazzetto da boy band nonché ex fidanzato di Britney Spears, di prodotto di Mtv nella sua accezione negativa di commerciale, leggerino, buono per ragazzini. Poco importava che già con l’album solista precedente, Justified, Timberlake avesse dimostrato non solo di saper cantare, di conoscere profondamente l’R&B e di essere cresciuto ascoltando musica nera, ma anche la capacità di sapersi scegliere la gente giusta con cui lavorare (Timbaland e i The Neptunes, ad esempio).

Il pomeriggio del secondo giorno intervistai Justin Timberlake per XL di Repubblica. Ricordo che mi parlò molto della mamma, del suo non aver mai cercato la fama, di meditazione e di amici d’infanzia. Non una gran intervista, lo ammetto, ma a mia discolpa va detto che non lo avevo ancora visto dal vivo, cosa che successe il giorno dopo. La sera del terzo giorno, infatti, ci fu il concerto. In un minuscolo club di Pigalle, Timberlake e la sua band presentarono alla stampa e ad alcuni selezionatissimi invitati FutureSex/LoveSounds: lo suonarono tutto, di fila. Ricordo che la band era composta esclusivamente di musicisti e coristi neri. Pur essendo l’unico bianco Timberlake su quel palco sembrava anche lui nero. Fu un concerto straordinario, per l’eccezionalità dell’evento e per la bravura di tutti quelli coinvolti. Siccome all’epoca si parlava di rivalità tra Robbie Williams e Justin Timberlake circa il ruolo di king of pop lasciato vacante da Michael Jackson, ricordo di aver pensato: «Povero Robbie, per te si mette molto, molto male». In realtà ricordo di aver stabilito una mia personale classifica dei migliori performer mai visti in vita mia e di averlo messo a pari merito nientemeno che con Prince (visto secoli prima a Milano, non ricordo neanche l’anno). Ricordo, ancora, di aver pensato che bisognava smetterla di fare gli snob e di avere pregiudizi: per quanto mi riguardava Timberlake era un signor musicista.

Ora, la notizia, qui, non è che negli anni la storia mi ha dato ragione, chi se ne frega. La notizia, qui, è che Justin Timberlake è diventato molto di più di quello che poteva lasciar intendere nel 2006. Lo dimostra tutto quello che ha fatto in questi anni, anche senza avere dischi nuovi: collaborazioni, film, ospitate. Tutto eccellente, tutto che gronda intelligenza, senso dello spettacolo, versatilità, talento. Sa fare tutto, fa tutto, e fa tutto bene. Non mi ricordo un artista così, da boh, non so neanche io a chi paragonarlo. Il disco nuovo, The 20/20 Experience, che esce il 19 marzo, non l’ho ancora sentito, ma non ho difficoltà a credere che non farà che confermare tutto quello che di buono c’è già. Che poi, quello che in realtà volevo davvero segnalare è ciò che in questi anni Justin Timberlake si è inventato insieme a Jimmy Fallon. Si chiama History of Rap ed è una delle cose più belle che abbia mai visto in vita mia: un medley di pezzi rap cantati dal vivo con l’accompagnamento dei The Roots, nientemeno. La prima parte si trova qui (purtroppo si vede male). La seconda e la terza qui. L’altra sera Justin e Jimmy hanno fatto anche la quarta parte, annunciando: «Questa è l’ultima volta che lo facciamo, fino a quando non lo faremo di nuovo». History of Rap è la tipica cosa che la vedi fare a loro, gli americani, e pensi subito che non c’è niente d fare, il senso dello spettacolo come ce l’hanno loro non ce l’ha nessuno. Pensare a una versione nostrana (con chi, poi? boh) è solo farsi del male. Tra l’altro, mentre da noi andava in onda l’omaggio a Dalla, quella stessa sera Timberlake era sia ospite musicale che presentatore del Saturday Night Live, dove prima si rendeva ridicolo come concorrente del Date Game, poi imitava Elton John cantando Goodbye Hugo C in memoria di Hugo Chavez  e poi, come se fosse la cosa meno importante di tutte, promuoveva Suit & Tie esibendosi con tanto di orchestra e special guest Jay Z. Insomma, quello che credo di voler dire alla fine di tutto è che ogni volta che vedo Justin Timberlake fare una qualunque delle diecimila cose che fa, penso che sia un tale concentrato di talento, spettacolo, classe, e ironia che penso che sotto dovrebbe passare la scritta “Don’t try this at home”. Così, nel caso a qualche sciagurato venisse in mente di provarci, a fare quello che fa lui.

Simona Siri

Vive a New York con un marito e un cane. Fa la giornalista e ha scritto due libri: Lamento di una maggiorata (Tea, 2012) e Vogliamo la favola (Tea, 2013). Segue la politica americana, il cinema e le serie tv. Ama molto l'Italia e gli italiani, ma l'ha capito solo quando si è trasferita negli Usa.