Una mappa politica e sentimentale

La classica domanda che si fa a qualcuno per provarne a capire idee e sentimenti politici è questa: Sei di destra o di sinistra? E si fa un gran parlare del fatto se destra e sinistra servano ancora a distinguere ideologie e valori politici. Questo tipo di discussioni è però spesso fuorviante. Queste etichette significano così tante cose diverse per gente diversa e hanno significato così tante cose diverse—in teoria e in pratica, nel corso dei decenni e dei secoli—che raramente quelli che dibattono di questa questione parlano della stessa cosa.

Dirsi di destra o sinistra serve certamente a fare alcune distinzioni importanti, quantomeno se ci intendiamo sulla definizione. Per farsi un’idea un po’ migliore di come la pensa qualcuno, però, ha senso fargli anche altre domande. Una potrebbe essere questa: Pensi che i rapporti sociali e economici siano e possano essere più spesso un gioco a somma zero o un gioco a somma positiva?

Somma zero e somma positiva

Queste espressioni vengono dalla teoria dei giochi. Un gioco a somma zero è un gioco in cui la vittoria di qualcuno corrisponde necessariamente alla sconfitta di qualcun altro, un guadagno per Tizio significa una perdita per Caio. Gli sport funzionano così, come anche le partite a poker, a scacchi o a Scarabeo. Se qualcuno vince qualcun altro perde, non si scappa. Questi giochi non creano nuove cose. Se qualcuno sta meglio di prima è necessariamente perché ha tolto qualcosa a qualcun altro.

Un gioco a somma positiva è invece un gioco in cui si crea un valore che prima non c’era. Chi sta meglio di come stava prima non lo fa necessariamente a scapito di chi sta peggio. Quel “meglio” è stato creato dal gioco stesso. Si aggiunge qualcosa di buono che prima non c’era. Nei casi migliori, tutti i giocatori hanno guadagnato qualcosa.

Il progresso umano degli ultimi secoli è stato un formidabile gioco a somma positiva. Non soltanto tantissima gente sta meglio di come stava prima, ma il benessere complessivo dell’umanità è aumentato in misura enorme. Eppure, per molti è parecchio difficile pensare a esempi di giochi a somma positiva, e per alcuni di noi è faticosamente controintuitivo pensare alla politica, a una discussione controversa, o a una trattativa come potenziali giochi a somma positiva.

C’è forse una ragione evoluzionistica dietro la tentazione di pensare a somma zero. Il mondo in cui hanno vissuto i nostri antenati per decine di migliaia di anni è stato un mondo sproporzionatamente a somma zero. Nel mondo dei cacciatori-raccoglitori, più cibo per qualcuno significava quasi inevitabilmente più fame per qualcun altro. La sopravvivenza richiedeva l’abilità di capire al volo e trattare molte interazioni sociali come sfide a somma zero. Se state leggendo questo articolo, vuol dire che i vostri antenati si sono riprodotti—hanno trovato il cibo migliore, si sono accoppiati coi compagni più sani—e quindi probabilmente avevano una maggior propensione a pensare a somma zero. Quei geni a somma zero adesso li avete voi.

Chiunque abbia mai dato una porzione di cena a un bambino sa di cosa sto parlando. Anche se c’è abbondante pizza per sfamare tre famiglie, ci sarà comunque un qualche battibecco sul fatto che la fetta di qualcun altro sia più grande. Anche se la fetta più grande non toglie niente a nessuno, l’istintiva mentalità a somma zero del giovane contestatore fa vedere competizione e conflitto dove non ci sono.

Ma quei geni a somma zero, utili fino a pochi secoli fa, possono rivelarsi un enorme ostacolo per capire e migliorare il mondo di oggi.

Un esperimento

Lo psicologo Daniel Meegan ha fatto alcuni esperimenti con degli studenti per studiare la tendenza che abbiamo a considerare a somma zero persino situazioni in cui le risorse sono potenzialmente infinite. Ai partecipanti venivano mostrati i voti degli studenti che avevano sostenuto un esame fino a un certo momento e gli veniva chiesto di prevedere che voto avrebbe preso lo studente successivo.

L’esame veniva valutato sulla base di parametri assoluti. Cioè, come accade sempre in Italia e in Canada (dove è stato fatto l’esperimento) il voto di ciascuno dipendeva dalla qualità dell’esame di quella persona indipendentemente dal fatto che i suoi compagni di classe avessero fatto bene o male. Si trattava insomma di una situazione non a somma zero. Il buon risultato di qualcuno non poteva influenzare negativamente il risultato di qualcun altro. Il voto del ventesimo studente sarebbe stato alto o basso solo sulla base delle risposte del ventesimo studente, sia che i precedenti diciannove avessero fatto bene sia che avessero fatto male.

Ciononostante, i partecipanti all’esperimento tendevano a vedere la situazione come un gioco a somma zero. Se gli studenti precedenti avevano preso voti alti, prevedevano voti più bassi per gli studenti successivi. Se gli studenti precedenti avevano preso voti bassi, prevedevano voti più alti per gli studenti successivi. Inconsciamente, i voti alti di alcuni studenti erano erroneamente percepiti come un guadagno a scapito di altri studenti.

La mentalità a somma zero può essere egoisticamente utile a sopravvivere nelle situazioni di scarsità e di avversità in cui il progresso (cioè l’aumento delle risorse) è impossibile o altamente improbabile. Ma scambiare situazioni a somma positiva per situazioni a somma zero significa farsi del male da soli e rinunciare ai guadagni della cooperazione.

La creazione di valore

Da ragazzino lessi quest’episodio in un romanzo di Ken Follett. La storia si volge nel 1100 o giù di lì e un allevatore sta per portare i suoi animali al mercato per venderli, come ogni anno. Deve fare un lungo viaggio per poter vendere le bestie, intascare il ricavato e tornarsene a casa. Una donna gli propone un affare insolito: sarebbe andata lei a vendere le bestie al mercato in cambio di una percentuale sul ricavato.

L’allevatore è scettico: siamo nel Medioevo, la somma zero esce dalle famose pareti. Ma la tizia prova a farlo ragionare. Lei avrebbe guadagnato la percentuale sulla vendita, certo, ma l’allevatore avrebbe risparmiato tutta la fatica del viaggio e non avrebbe perso preziose settimane di lavoro per raggiungere il mercato, vendere gli animali e tornare indietro—un risparmio molto maggiore della percentuale pagata alla donna. Insomma, l’affare proposto dalla donna era una situazione a somma positiva. Entrambi ci avrebbero guadagnato qualcosa.

Il fatto che io ricordi vividamente questo episodio marginale di un romanzone storico di mille pagine è abbastanza curioso. Era però la prima volta che qualcuno mi spiegava in modo limpido come si potesse creare valore “dal nulla”. Per un dodicenne cresciuto in una terra testardamente affezionata (in parte a ragione e in gran parte a torto) alla mentalità a somma zero, quel contratto tra l’allevatore e la donna fu piuttosto stupefacente. L’interazione tra i due aveva creato un surplus, un valore che prima non c’era. Ripartendosi questo valore la donna e l’allevatore stavano entrambi meglio di come sarebbero stati senza l’accordo.

I sommazeristi

Pensare a somma zero significa non considerare che la cooperazione possa creare questo tipo di surplus. Significa pensare, ad esempio, che il benessere che gli immigrati riescono a ottenere nel nostro paese sarà necessariamente a scapito del nostro benessere, invece di contemplare l’ipotesi che gli immigrati possano essi stessi creare qualcosa di buono.

Significa pensare che il numero dei posti di lavoro sia fisso, per cui se qualcuno va in pensione più tardi qualcun altro resterà inevitabilmente disoccupato più a lungo. Significa credere che se arriva una persona in più, dovremo dividere la torta in fette più piccole, invece di pensare che le torte vanno prima preparate e messe in forno, e quella persona in più può aiutare a preparare un’altra torta, così le fette che toccheranno a ciascuno saranno invece più grandi.

Nel paesaggio ideologico e sentimentale a somma zero, troviamo persone che si definiscono di destra e persone che si definiscono di sinistra e persone che rifiutano entrambe le etichette. Troviamo il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, la cui intera filosofia di vita è permeata dal sommazerismo. Troviamo i paladini di destra del “Prima i…”, sedicenti difensori di qualche piccola o grande tribù a scapito di qualche altra tribù; ma troviamo anche i tanti che si definiscono di sinistra e negano radicalmente le ragioni della crescita economica: i fan della decrescita felice e i pessimisti estremi del mercato.

Non lontano dagli estremisti della somma zero, troviamo i conservatori culturali, secondo i quali la contaminazione culturale non può che portare all’ingiusta prevaricazione di alcune idee e valori a scapito di altri—invece che alla selezione delle idee migliori e alla creazione di nuovi e migliori valori. Ma troviamo anche i critici più estremi dell’“appropriazione culturale”, secondo cui non è accettabile che uno scrittore maschio bianco scriva una storia su una donna nigeriana perché si tratterebbe di una forma di sfruttamento.

Troviamo quelli le cui diagnosi ruotano quasi sempre intorno a grandi conflitti con nemici collettivi: l’Europa, lo Straniero, la Casta, le Lobby o la Finanza. E, un passo più in là, troviamo i pessimisti del progresso—quelli, come il filosofo inglese John Gray, che ritengono il progresso umano degli ultimi secoli un mito o un’illusione e quelli secondo cui dietro qualsiasi conquista c’è sempre un profitto illecito che la degrada e squalifica.

Tentati troppo spesso dalla mentalità a somma zero sono anche le persone (che si definiscono di sinistra e spesso rivendicano l’esclusiva su questa etichetta) che invocano la redistribuzione di reddito e ricchezza sminuendo o deridendo l’importanza della crescita economica. Proprio in questi giorni, alcuni hanno salutato il riferimento del segretario del PD Zingaretti alla “redistribuzione” come un importante segnale “di sinistra”. Quando un altro esponente del PD, Luigi Marattin, ha osservato che la redistribuzione, per essere efficace, deve accompagnarsi alla crescita, Davide De Luca (giornalista del Post e commentatore di cose politiche) ha equiparato Marattin a chi pensa che la redistribuzione equivalga a un esproprio.

Il punto è parecchio interessante e, credo, estremamente istruttivo. De Luca sembra non considerare questa semplice ipotesi: che Marattin possa avere anche lui a cuore il benessere dei poveri, ma pensi semplicemente che questo benessere possa e debba essere creato oltre che redistribuito. Paradossalmente, chi pensa (da destra) che la redistribuzione sia un esproprio e chi pensa (da sinistra) che la redistribuzione senza crescita sia una cosa commovente e buona sono assai più vicini tra loro nella visione del mondo di quanto comunemente si pensi. Magari hanno a cuore gruppi diversi (ricchi e poveri), ma sono d’accordo nel ritenere che la questione cruciale sia chi vince e chi perde, e non invece come provare a far vincere più gente possibile. Insomma, chi grida all’esproprio da un lato e chi si commuove sminuendo il problema della crescita sono vicini di casa e (almeno con riguardo a questo argomento) vicini alla mentalità a somma zero.

Panglossiani e Progressisti

Sarebbe ingenuo e inaccurato, però, pensare che nel mondo non ci siano vincenti e perdenti. Il mondo è pieno di veri giochi a somma zero, così come di conflitti, prevaricazioni, e sfruttamento. E anche quando il gioco è a somma positiva, la ripartizione del valore creato può produrre vincitori e sconfitti “locali” a dispetto del generale guadagno per l’intera comunità.

Chi ignora queste complicazioni si pone all’estremo opposto rispetto ai sommazeristi: sono gli ottimisti estremi più ingenui, i panglossiani che ripongono radicale fiducia nell’auto-regolazione dei rapporti sociali, e quelli noncuranti dei problemi distributivi.

Nello spazio in mezzo ci sono quelli quelli che mi piacerebbe chiamare progressisti, se la parola non fosse così carica di significati storici diversi e contrastanti. Sono quelli che che hanno una dose di fiducia sostanziosa (ma non cieca) nei giochi a somma positiva.

I più guardinghi sono attenti alle dinamiche conflittuali, cauti sulle virtù della ragione e del dialogo, ma pur sempre fiduciosi nella capacità degli uomini di disegnare e creare il proprio benessere. I più radicali sono invece gli entusiasti della somma positiva, quelli a cui (userò un’espressione sdolcinata e nerd di Julia Galef) i miglioramenti paretiani fanno battere il cuore. Tutti gli altri si collocano in posizioni intermedie.

Questi progressisti (lasciatemeli chiamare così per semplicità: nessuno si offenda) hanno idee e sensibilità distinte. A volte misurano il progresso in modo molto diverso e hanno aspri disaccordi sulle soluzioni tecniche e le strategie per muoversi nella direzione che credono giusta. Hanno però, ad accomunarli, una cosa di cui si parla sempre meno man mano che il mainstream, nella pratica politica e nel discorso intellettuale, si sposta sempre più verso la somma zero: la fiducia nella creazione di valore.

Passioni tristi e passioni nobili

Questo è un commento modesto e non conterrà conclusioni grandiose e spericolate sul momento politico in Italia, in Europa e negli Stati Uniti, o sulle ricette vincenti per migliorare le cose. Stanno succedendo molte cose, e molto complicate, e pensare di trovare il filo giusto e tirarlo per sciogliere la matassa è un’illusione ingenua. Per le matasse serve grande pazienza.

Credo però che la mentalità a somma zero spieghi un aspetto importante di questa matassa. La tentazione del pensare a somma zero, radicata nella mentalità quotidiana, ha invaso il discorso intellettuale, i programmi politici e persino le aspirazioni più energiche della gente. Per certe forze politiche e i loro elettori, una delle aspirazioni più alte è tagliare il numero e gli stipendi dei parlamentari. Per altri si tratta di bloccare gli stranieri alla frontiera. Per altri ancora è tassare da Briatore in giù o rottamare la vecchia guardia del partito o bloccare un cantiere. Queste sono le passioni che ispirano da anni il discorso pubblico italiano. Si tratta sempre di togliere o spostare, non di creare qualcosa di nuovo.

È importante ribadire una cosa: alcune di queste cose potrebbero forse essere utili, perfino importanti. Forse i parlamentari dovrebbero davvero essere pagati di meno. Forse l’IRPEF o l’imposta di successione va aumentata. Forse quel particolare cantiere andrebbe bloccato. Sono questioni da valutare a mente fredda, tirando le somme dei pro e contro, provando a capire quale potrebbero essere le conseguenze, eccetera eccetera.

Il punto però è un altro. Se le aspirazioni più alte degli italiani sono soltanto delle vittorie a somma zero, giuste o sbagliate che siano, il futuro sarà buio. Un paese che pensa a somma zero si trasforma rapidamente in un paese che opera a somma negativa. E un paese che opera a somma negativa scivola rapidamente nella miseria e nella dittatura.

Qualche anno fa, l’economista Benjamin Friedman ha scritto un librone poderoso e affascinante intitolato Le conseguenze morali della crescita economica. Il succo della ricerca può suonare ovvio, ma è spesso dimenticato nel dibattito quotidiano. Il miglioramento delle condizioni materiali di vita per la gran parte dei cittadini porta con sé maggiore tolleranza per chi è diverso o la pensa diversamente, maggiore mobilità sociale, più attenzione all’equità e alla giustizia, più devozione alla democrazia e alla libertà. Al contrario, la stagnazione e peggio ancora il declino economico portano razzismo, intolleranza, violenza, superstizione, fanatismo, e disaffezione verso le istituzioni politiche della libertà e della democrazia.

Il concetto era già chiaro ad Adam Smith nel 1776. “È nello stato progressivo”, scrive ne La ricchezza delle nazioni, “quando la società avanza verso ulteriori acquisti, piuttosto che quando ha già acquistato la pienezza delle ricchezze, che la condizione dei lavoratori poveri, della gran parte del popolo, sembra essere la più felice e la più confortevole. Essa è difficile nello stato stazionario, e infelice nello stato di declino.”

Ma era un concetto chiaro anche a Karl Marx, un progressista certamente assai diverso da Smith. Nel criticare il programma dei socialdemocratici, Marx etichetta come “socialismo volgare” quello interessato alla “distribuzione” egualitaria delle ricchezze esistenti, e avverte che solo quando con la società comunista “le forze produttive saranno aumentate grazie allo sviluppo a tutto tondo dell’individuo, e le fonti della ricchezza cooperativa sgorgheranno più abbondantemente” si potrà realizzare l’ideale comunista: “Da ciascuno secondo le sue abilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.”

Marx auspica in quelle pagine una completa trasformazione della struttura sociale ed economica (con tanto di dittatura del proletariato). Ma anche in questa visione estremista e rivoluzionaria, Marx ha ben chiaro in mente che il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori dipende principalmente dalla creazione di più benessere, crescita, e produzione di valore.

Nell’Italia del 2019, invece, l’idea che il benessere vada creato sembra scomparsa del tutto. Il successo elettorale dei sommazeristi di vario colore è diventato un modello da imitare. I concorrenti pensano di potersi limitare soltanto a dare un’interpretazione diversa dell’approccio a somma zero, per vincere qualche pezzo d’elettorato. I più inventivi provano a trovare un nemico diverso a cui bisogna togliere quello che serve al popolo (se non sono gli stranieri allora sarà Soros o la vecchia dirigenza del PD o i senatori o chissà chi altro). I più pigri si limitano a copiare di sana pianta il nemico indicato da quegli altri: l’Europa, la Casta, o quel che è.

Anche quelli che avanzano proposte a somma positiva—proposte di crescita—si limitano a ripetere slogan vaghissimi e inutili. Investire in istruzione! —ma quale istruzione? e in che modo, in che misura, con che scopo? Se provi ad andare un po’ più a fondo capisci che spesso non si tratta di vere proposte di crescita, ma di ritornelli vuoti o spostamenti di valore da una voce a un’altra.

Prima ancora che una questione di policy e ricette di governo, però, questa è una questione sentimentale. I cinici e opportunisti della somma zero—quelli che ci ricordano quotidianamente che gli elettori non votano sulla base dei dettagli tecnici, ma seguendo le emozioni—hanno ragione sul fatto che la politica sia un affare sentimentale. Hanno torto marcio, però, a pensare che le emozioni politiche debbano assomigliare necessariamente alle loro passioni tristi.

C’è un intero paesaggio sentimentale progressista dimenticato a causa di elettori stanchi e scoraggiati, ed eletti inadeguati e senza immaginazione. È la passione per la creazione di quello che ancora non esiste, e non solo per la spartizione di quello che c’è già; per la cooperazione che crea valore nuovo, e non solo per il conflitto che sposta valore da un gruppo a un altro; per l’ambizioso arricchimento delle nostre possibilità, e non solo per la manutenzione timida e impaurita delle possibilità presenti—altrimenti, presto ci sarà ben poco da spartirsi o conservare.

Questi sono i sentimenti che hanno animato le migliori conquiste dell’umanità e animano le migliori aspirazioni ancora da realizzare: che si tratti di dar battaglia contro lo sfruttamento o di cooperare per la produzione di benessere, il mondo migliore va immaginato e creato.

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita