Il web salverà la fotografia?

Si è svolto un settimana fa un incontro sull’utilizzo della fotografia nell’editoria italiana. L’occasione era quella del Contrasto Day, una giornata di presentazione delle attività della agenzia-casa editrice che da tempo domina la scena italiana. Presentata da Roberto Koch, vero padrone di casa e organizzata dall’Associazione Deaphoto con la Libreria Brac al cinema Alfieri di Firenze, la giornata era densa di appuntamenti.
Il primo dei quali è quello che ci riguarda. Sul palco siamo tre photoeditor: Emanuela Mirabelli di Marie Claire, Tiziana Faraoni dell’Espresso, la sottoscritta e una vicedirettrice (la prima che declina orgogliosamente al femminile la sua qualifica) Elena Boille di Internazionale, che da sempre si occupa anche della parte fotografica del settimanale.
Storie e testate differenti che (forse) possono rendere la discussione vivace.

Esiste ancora il professionismo nella fotografia? Oppure oggi siamo tutti fotografi? E lo smartphone, sarà davvero l’unico supporto su cui cercheremo le informazioni?
La fotografia è un linguaggio immediato e capace di offrire strati differenti di lettura, interpreta il mondo ed è testimonianza laddove accadono gli eventi.
Lo è ancora o, nella nostra editoria, si è ridotta a mera illustrazione?

Queste le prime domande, le stesse che ci facciamo ogni giorno riflettendo sul nostro operato.
Cominciamo bene con un bell’affondo di Emanuela Mirabelli che sostiene che si è rotto il tacito patto tra lettori e testate. “Il reportage si è ristretto, ha poco spazio nei magazine perché la richiesta è di avere contenuti leggeri; la parola d’ordine con cui cerchiamo i contenuti visivi e con cui chiediamo ai fotografi di realizzare le storie è alleggerimento. Con non poco imbarazzo. Preferirei invece che fosse coinvolgimento, però mi rendo conto che non dipende da me o dal mio direttore ma, ipotizzo, dalla necessità di creare o portare contenuti che non “disturbino” la pubblicità.”

Come siamo arrivati a mettere in discussione la peculiarità interpretativa e documentaria della fotografia?

La nascita, o meglio l’esplosione dei femminili – mensili prima, allegati e settimanali poi – iniziata negli anni’80 ha avuto grandi responsabilità. Un mercato pubblicitario ricco e vorace ha foraggiato e colonizzato questo settore editoriale. I contenuti si sono mescolati contaminando i linguaggi: moda e attualità, design e bellezza, viaggi e personaggi in una rappresentazione che cercava nella bellezza formale e compositiva la sua ragion d’essere.

L’evoluzione del mezzo e la tecnologia digitale hanno fatto il resto, creando una sorta di euforia da manipolazione che ha coinvolto tutti – fotografi e creativi – nell’utilizzo dell’artificio che mentre cercava di compiacere, si allontanava inevitabilmente dalla realtà, dalla documentazione e dalla forza dell’immediatezza del linguaggio stesso. Per questo siamo finiti tutti col credere sempre meno alle fotografie.
Dubitiamo delle forme e dell’età dei personaggi, dubitiamo delle luci e delle stagioni e ancor peggio, dubitiamo ormai delle testimonianze delle guerre. È di oggi la notizia del licenziamento dall’Associated Press del Premio Pulitzer Narciso Contreras che ha manipolato un’immagine dal fronte siriano.
Credo che anche la costruzione dell’immagine abbia contribuito a lacerare il rapporto tra la realtà e i lettori e dunque a ledere quel tacito patto di cui parlava la Mirabelli. Poi è successo quello che vediamo ogni giorno: calo dei lettori, aumento della necessità di introiti pubblicitari per sostenere l’esistenza stessa delle testate. Un crescente investimento nella produzione di servizi legati agli inserzionisti e una contestuale sottrazione di risorse alla produzione di quella che nelle redazioni viene chiamata attualità ha allentato il rapporto, non solo tra chi fa i giornali e chi li dovrebbe leggere ma anche con chi produce le immagini. Mi spiego, da tempo i fotografi hanno cominciato ad autoprodurre le storie, a viaggiare da soli e a offrire prodotti a redazioni “sedute” in cui nessuno viaggia, vede e racconta più.
I testi si confezionano a posteriori con una diacronia tra immagine e parola che crea contenuti freddi, senza tempo e per questo incapaci di coinvolgere.

Succede solo nei femminili? Assolutamente no, conferma Tiziana Faraoni, photoeditor dell’Espresso: “Avete notato quanti speciali facciamo inseguendo la raccolta pubblicitaria mentre perdiamo i lettori? Moda, design, vini ecc. Produrre costa troppo: un reportage fotografico acquistato ci costa 3000 euro più qualche centinaio di euro al giornalista freelance per il pezzo. Se dovessi produrre non starei certo dentro questa cifra.”
Quindi anche dal fronte newsmagazine bilancio nero. Per fortuna su questo palco c’è Elena Boille di Internazionale che con candore dichiara: “Quando abbiamo deciso di fare Internazionale nel ’93, ci siamo chiesti: che giornale vorremmo leggere ?” Non è autoreferenziale la domanda, temo sia sincera, la stessa che dovremmo farci tutti i giorni noi che facciamo giornali. D’accordo, Internazionale non è una testata di contenuti prodotti: è una splendida e necessaria rassegna stampa, in un Paese che ha bisogno di finestre sul mondo. Sceglie e seleziona per noi notizie e articoli, dunque orienta e indirettamente crea contenuto. E la fotografia? Ha un ruolo importante certo, basta pensare che la testata, unica in Italia, ha quattro photoeditor. “Cerchiamo le immagini nei luoghi d’origine, privilegiamo fotografi locali in cui ritroviamo un linguaggio essenziale; per quanto riguarda l’eccessiva manipolazione delle immagini penso che la responsabilità sia nelle redazioni e in chi dà spazio a un tipo di estetica” continua Boille.
Inevitabilmente per Internazionale l’immagine è contenuto freddo, quasi mai prodotta, di buona qualità, ispirata da sani principi di contemporaneità e attenta alle evoluzioni del linguaggio, di fatto anche qui assume un ruolo illustrativo.
Come l’Espresso, e molte altre testate, sazia la sua “fame” visiva con il portfolio settimanale.
Un corpo estraneo al centro del giornale dove il testo è ininfluente e ci si possono concedere le tragedie del mondo spesso esaltate dal fotogiornalismo più urlato. Condivide la mia avversione per i portfoli Tiziana Faraoni: “In numeri affollati di “pezzi” compare il portfolio. Come a dire: ora riposatevi, dovete solo guardare”.
In fondo il portfolio non è che il progenitore delle odierne gallery sul web.
E il futuro?
Oggi i politici si fotografano per documentare gli incontri, gli inviati realizzano testo e immagini, i grandi della Terra si fanno gli autoscatti per comunicare il proprio compleanno o la presenza a un evento pubblico (il caso di Obama al memorial per Nelson Mandela ne è un esempio). “È un mondo che cambia a velocità impressionante” afferma Roberto Koch nel tirare le conclusioni e aggiunge: “La fotografia ha contribuito enormemente al successo di alcune testate, ma è un valore che in questo Paese è sempre stato poco percepito”.
Siamo tutti d’accordo che l’informazione verrà veicolata dagli smartphone e dai tablet.
Per questo futuro così vicino la Mirabelli si auspica che la fotografia conservi la pluralità di linguaggi e sia sempre più aperta alle diverse modalità di realizzazione mentre la Faraoni confessa di non essere tanto ottimista perché “si continuano a utilizzare le immagini in modo didascalico, come una punteggiatura nel testo. Far capire che la fotografia ha una sua autonomia comunicativa sulla carta e nei pixel è, ancora oggi, molto faticoso ”.

Quindi, che fare?
Essere capaci di stare nella rete, utilizzarla al meglio perché offre infinite possibilità e dove tutto può e deve ancora succedere. Dove credo che fotografia e video la faranno da padroni, perché c’è bisogno di immagini, ancora più che sulla vecchia e cara carta,  per la loro velocità di fruizione e capacità di sintesi. Oggi le gallery che vediamo sulle homepage dei nostri giornali ci deprimono per mancanza di contenuti, confusi in una deriva di stranezze dal mondo: gatti che sciano, i soliti nuovi amori e le solite coppie che scoppiano o bikini revival, alternati a grandi eventi commemorativi o guerre didascaliche, nella patetica ricerca del clic che certifica utenti e forse un giorno attirerà la pubblicità. È però altrettanto vero che si notano esperimenti di approfondimento, dove il testo è sinergico con l’immagine e richiama alla memoria le rimpiante inchieste.
Il web è un’opportunità rivoluzionaria e la fotografia che testimonia e racconta dovrà trovare qui il suo nuovo spazio e sarà importante, perché in fondo si somigliano: offrono sintesi e velocità.
Io credo in questa rivoluzione, spero avvenga domani.
Avendone fallite altre, questa non me la vorrei perdere.

Renata Ferri

Giornalista, photoeditor di "Io Donna" il femminile del "Corriere della Sera" e di "AMICA", il mensile di Rcs Mediagroup. Insegna, scrive, cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi.