Il canaro campione del mondo

Il “Wacky Races” era stata la corsa più folle vista in Italia negli anni Ottanta. Non era reale, si svolgeva in una serie di animazione (con un titolo omonimo) firmata Hanna & Barbera e ispirata al film “La grande corsa” di Blake Edwards.
La spericolata gara automobilistica si muoveva attraverso gli Stati Uniti d’America percorrendo una tappa a episodio. A sfidarsi erano sempre gli stessi mezzi. Uno più fantasioso dell’altro. Gareggiavano, ad esempio, una Macigno-Mobile di pietra guidata dai cavernicoli Slag, la trasformabile Multiuso del professor Pat Pending  e un carro funebre chiamato Diabolico Coupé. E poi un’auto di legno, un biplano della Seconda Guerra, un carro armato, una macchina antiproiettile guidata da una banda di gangster o ancora personaggi d’altri tempi come la sensuale Penelope Pitstop e il damerino galantuomo Peter Perfect. Non poteva mancare il cattivo. L’uomo che pur di vincere si sarebbe avvalso, inutilmente, degli stratagemmi più scorretti. Si chiamava Dick Dastardly e viaggiava sulla vettura “00” insieme alla sua inseparabile spalla, il cinico Muttley, un cane opportunista, infedele e sempre pronto a ghignare delle sventure del suo padrone.

Quest’ultimo personaggio, che aveva fatto una sua occasionale apparizione nel film di animazione “Yogi, Cindy e Bubu” (1964), fu quello che colpì maggiormente l’immaginario dei telespettatori. Al punto da essere riproposto prima in uno spin-off – “Dastardly e Muttley e le macchine volanti” – e dopo, in versione riveduta e corretta, in una serie interamente a lui dedicata: “Mumbly”. Pur mantenendo l’inconfondibile ghigno, nome, orecchie, look e orientamento filosofico erano stati modificati per questioni di diritti (sia per il “Wacky Races” che per “le macchine volanti” Hanna-Barbera Cartoons e Warner Bros. Animation si erano avvalsi del supporto della Heatter-Quigley Productions) ma era sempre lui. Negli Stati Uniti uscì nel 1976 sulla emittente ABC all’interno del “The Tom & Jerry Show”, una serie televisiva prodotta dalla Hanna-Barbera, che combinava più cartoni animati formando così un programma contenitore. Successivamente la MGM li fece trasmettere in syndication (vendendo quindi i diritti di trasmissione a singole emittenti televisive locali riunite in consorzio). E questa fu anche la forma con la quale la serie “Mumbly” arrivò in Italia all’interno di un contenitore di cartoni animati chiamato “Ciao Ciao”. Il programma, a partire dall’8 settembre 1979, seguendo il modello delle syndication statunitensi, si era avvalso dell’interconnessione come stratagemma per trasmettere contemporaneamente gli stessi cartoni su tutto il territorio italiano all’interno delle televisioni locali appartenenti al circuito di proprietà di Leonardo Mondadori. Le emittenti, pur restando indipendenti tra loro, si collegavano per un certo numero di ore ad un’emittente capofila, la RTI, che trasmetteva a Roma, da Monte Mario e Monte Cavo. Il secondo aveva un’esposizione favorevole ai quartieri a sud della capitale. Fu in questo modo che “Mumbly” arrivò anche nelle case di Portuense, Ardeatino, Trullo e Magliana.

La Magliana scontava ancora il suo peccato originale. Era nata sotto il segno dei pesci, quelli del Tevere, in deroga alle prescrizioni del piano regolatore del 1962.  Era sorta dal nulla, grazie ai finanziamenti della Banca Nazionale del Lavoro, nel decennio 1965-1975 quando un gruppo di costruttori romani, sotto l’egida di tre amministrazioni democristiane, cementificarono oltre tre milioni di metri cubi di appartamenti, costruiti al di sotto del livello di piena del fiume. Fu qui che le future anime della Magliana vennero a ingolfarsi passando dalle 20.000 unità del 1971 alle 50.000 del 1977. A causa dell’alta densità edilizia (che occupava il 63% del territorio), gran parte degli alloggi si ritrovarono ad essere totalmente privi di insolazione e di aerazione, perché i “palazzinari” non rispettarono neppure le distanze minime tra i condomini fissate dal Piano Regolatore. La maggior parte delle strade (il 32% del territorio) non venne neanche asfaltata. Il restante 5% fu occupato dalla chiesa e da un’unica scuola, insufficiente per ospitare tutti gli studenti del quartiere. Mancavano l’illuminazione pubblica, gli asili nido, i campi sportivi, i giardini, i parcheggi, le strutture sanitarie, i centri sociali, culturali, ricreativi e il mercato. Gli scarichi degli edifici confluivano in fosse che finivano direttamente nel Tevere. La mancanza di reti fognarie produsse i ristagni permanenti delle acque piovane (le iconiche pozzanghere maglianesi) e l’umidità perenne del territorio. Proliferarono così reumatismi, bronchiti e crisi asmatiche. L’acqua potabile, poi, i cui tubi erano situati all’interno di in un suolo inquinato, infiltrandosi nelle condotte idriche, diventò veicolo di malattie infettive di ogni sorta, malaria compresa.

L’assenza di un qualunque tipo di disegno – urbanistico, estetico, architettonico, ambientale, istituzionale, igienico e sociale – andò inevitabilmente a incidere pesantemente sulle esistenze degli abitanti del quartiere contribuendo a deviare il già precario corso dei loro destini. L’ignoranza degli speculatori, insieme alla cieca complicità comunale, agevolò l’ignoranza dei residenti. L’assenza di una estetica e il vuoto istituzionale furono la causa del totale smarrimento sociale nel quale vennero a trovarsi gli abitanti della Magliana. Il 70% di loro si arenò alla licenza media. L’insufficiente titolo di studio generò un alto tasso di disoccupazione, un profondo pessimismo e una conseguente emarginazione giovanile che andarono a sfociare nel consumo di droghe e nello sviluppo di fenomeni criminali. Protetta da un quartiere che si trovò a essere isolato, anche urbanisticamente, dal resto della città, la delinquenza comune si poté evolvere in una inedita criminalità organizzata capace di sostituirsi alla legge dello stato.

Alla fine degli anni Settanta questo mostruoso agglomerato di edifici intensivi – umido, sovrappopolato, sprovvisto di servizi e privo di fogne comunali – si presentava come la conferma più triste dell’inevitabile relazione che si viene a creare tra territorio e crimine. La dimostrazione che gli atti criminosi trovavano terreno fertile negli spazi urbani con gravi carenze architettoniche, soggetti ad un’elevata densità abitativa.
Eppure quel suo essere terra di nessuno la fece divenire “promessa” per molti. Chi vi approdava allora fu un pioniere. Gente eterogenea, priva di qualunque tipo di radicamento, lontana dalle maglie di un tessuto sociale creato dal tempo. La scelsero gli sfollati rigettatati dalle borgate (oltre duecento famiglie provenivano dai baraccati del Borghetto di Prato Rotondo, tra Salaria e Nomentana). Ma arrivarono anche dalla Calabria, dalla Campania, dall’Abruzzo e dalla Sardegna. Tra questi ultimi ci fu anche Pietro, nato a Calasetta, in provincia di Cagliari, il 28 settembre 1956 – cinque giorni dopo il calciatore Paolo Rossi – cresciuto, come lui, sotto il segno della Bilancia ma sorvegliato da astri meno compassionevoli.

Pietro veniva da un altro mondo. Borghese e isolano. Padre imprenditore edile, nove fratelli, adolescenza sarda, futuro roseo. Fino a quando un tumore, quello del genitore, fece trasmigrare i beni di famiglia nelle mani di un amico che li gettò in miseria. E in pochi mesi Pietro perse padre, soldi e futuro. Un traghetto lo portò a Roma, la terra(ferma) delle opportunità. Era il 1973. Finì – in ritardo – la terza media. E con la scuola la piantò lì. Tornò in Sardegna. Fece l’elettrauto, il falegname, il gommista. Con le mani ci sapeva fare. Prestò anche il servizio militare. Lo congedarono – in anticipo – per problemi caratteriali. Quando si tolse il berretto guardò avanti e fu nuovamente a Roma che affidò lo spazio definitivo del suo futuro. Tagliò i ponti con la famiglia. Ma in una grande città la solitudine si amplificò. Non aveva nessuno. Cercò di essere apprezzato, compreso, ammirato, amato. Si nutrì della “Psicocibernetica”, la scienza che studia i fenomeni di autoregolazione e comunicazione negli organismi viventi, di Maxwell Maltz, per accarezzare una sua disciplina, per diventare impeccabile. Per essere accettato in un quartiere ben lontano dalla impeccabilità. Ma non accadde nulla. Iniziò a non fidarsi più di nessuno, per paura di essere tradito. O deluso. Si chiuse. Il suo divenne un mondo interiore. Silenzioso. Si rifugiò negli animali. I cani. Ma questo amore, come quei palazzi con il suo quartiere, solidificò il suo isolamento.  Non trovando un pubblico si sentì incompreso e vivendo senza confronti sviluppò un’alta concezione di sé. Era stato un borghese, era ancora un timido, avrebbe voluto essere un duro. Non era un uomo di strada, ma voleva farsi accettare. Si imbastardì. Per debolezza, per sopravvivenza, per disperazione, per colpa. Per essere uno degli altri. Uno di loro. Frequentò le bische, puntò sulle partite di calcio. Si impiegò anche all’Enel. Ma non legò con i colleghi. Poco dopo lasciò il lavoro.  Finché un giorno alla fermata del 97, l’unico bus che osava sfilare sulle strade della Magliana, vide lei. Maria Paola, ciociara, un’altra solitudine di un altro mondo. Trovarono una casa popolare. Si sposarono nel 1979. L’anello che lei gli mise al dito si frappose finalmente all’insostenibile cerchio di solitudine che lo circondava. Diventò la sua unica amica. Provò per lei a cercare nuove strade. Tentò di fare il rappresentante, ma durò pochi giorni. Al quarto tornò a casa sconfortato, lei capì. «Io vado a rubare», disse lui. Lo fece sul serio. La notte iniziò ad andare a Monteverde a sfilare le ruote dalle auto per rivenderle al gommista del quartiere. La vita, comunque, cambiò.

I soldi guadagnati a volte li arrotondava con le scommesse, giocandosi qualche partita. O li perdeva comprandosi qualche striscia. Lo facevano tutti. E lui ora era uno come tutti. Poco distante da lui si muovevano da un lato il ristoratore Alvaro Trinca e il fruttivendolo Massimo Cruciani che imbastivano scommesse d’accordo con i giocatori di calcio della serie A, dall’altro Maurizio Abbatino, che gestiva il traffico di droga per conto della banda che avrebbe portato l’etichetta del suo quartiere. Lui forse non sapeva nemmeno chi fossero, ma di certo nel 1980 venne a sapere, come tutti, che quel suo lontano coetaneo Paolo Rossi era rimasto coinvolto nel calcioscommesse insieme a Bruno Giordano e ad altri giocatori (proprio la moglie del giocatore della Lazio, poco dopo, sarebbe diventata la compagna di Renato de Pedis, altro pilastro della banda della Magliana). E forse allora pensò che se le stelle voltano la faccia a qualcuno è per porgerla a qualcun altro. Proprio durante la squalifica del giocatore, nel 1981, nacque sua figlia.
Le regalò tutto il tempo che aveva, mentre Maria Paola prestava servizio nelle case dei quartieri bene. In casa la tv era sempre accesa. Nel canale della RTI impazzavano i cartoni della Warner Bros, quelli di Tom & Gerry o Wile E. Coyote. Erano strisce comiche di genere “slapstick” (slap-stick: “bastone per colpire”), dove la violenza veniva appositamente esagerata per generare una risata. Fu in quel periodo che, il giorno della festa del papà, sul suo televisore apparve “Mumbly”, il cartone animato sul cane investigatore. Dallo stesso apparecchio, l’anno dopo, assistette alla rinascita di Paolo Rossi e a quei suoi sei gol che trascinarono l’Italia alla conquista del Mundial di Spagna. Il quartiere festeggiò e probabilmente anche lui, come tutti, nel suo piccolo si sentì campione. In quei giorni le stelle sorridevano ai nati sotto il segno della Bilancia. E Pietro con i soldi delle gomme rubate poté finalmente aprire una sua attività. Non ebbe dubbi nello sceglierla. Un lavaggio per cani. Il primo nel suo quartiere. Trovò il negozio in via della Magliana 253 L e nel decidere cosa mettere nell’insegna gli venne in mente il nome del cane di quel cartone, che probabilmente non ricordava nemmeno più come si scrivesse. Così il suo regno lo chiamò “Mambli”, senza la u e la y, così come veniva pronunciato. Come Pablito anche lui era riuscito a riveder le stelle.

Il “Mambli lavaggio cani” era il sogno di una vita che si era messa bene, si era piegata male e poteva riaprirsi meglio. Rappresentava un proposito di risurrezione. La speranza di farcela lì in quel guscio senza uscita nel quale si era andato a creare. Nell’angolo cieco di uno spiazzo chiuso al traffico. Intorno, là fuori, il mondo. Anzi, la sua faccia nascosta. Quella scura. Nata dall’ingordigia e dal profitto di pochi (costruttori) e pertanto destinata, in un perverso gioco di imbuti, a generare aneliti di ingordigia e profitto in tutti (gli abitanti).
Tra questi ce ne fu uno, ex pugile, che iniziò a frequentare il suo negozio. Un Pugile e un tolettatore erano due tensioni destinate a scontrarsi. Come in quei cartoni della Warner Bros. Concavi e convessi. Desiderio contro bisogno. Sopraffazione contro protezione. Pietro con il suo mondo da difendere. Il pugile con un dominio da allargare. Opposti in tutto. Uniti solo da una comune dipendenza.
Il pugile lo umiliò, lo minacciò, lo rapinò, lo malmenò. Pietro conobbe anche la galera per colpa sua. Ma continuò a subire senza mai reagire. Finché lui venne schiaffeggiato davanti alla figlia e il suo cane bastonato. Scattò una molla e il bisogno sottomise il desiderio. Pietro attirò il pugile in quel suo antro protetto da una sbarra. Chiusa la saracinesca, quelle strisce di coca che tirava per farsi coraggio diventarono animate. Disegnarono sul suo aguzzino l’intero repertorio delle scene slapstick di Tom & Jerry. E il suo show partì proprio con un bastone.
La voglia di farla pagare a chi minava la tranquillità del suo mondo diventò superiore alla necessità di proteggerlo. Come la Nazionale del 1982 abbandonò qualunque strategia remissiva. E passò all’attacco. Si illuse così di liberare se stesso. Di liberare un quartiere intero. La sua gente. Il suo popolo. Come aveva fatto Milziade con i persiani. O proprio Paolo Rossi con il Brasile. Ma l’aver annientato quel pugile non lo rese un eroe o un campione. Lo portò solo a condannarsi. Facendogli perdere tutto. E tutto quello che voleva proteggere finì che lo perse lui con le sue stesse mani.
Quando due giorni dopo si trovò di fronte la Polizia, inizialmente negò. Poi, punzecchiato nell’orgoglio, alzò la testa, guardò i suoi interlocutori negli occhi e, trasfigurando la sua espressione, tirò fuori una voce cavernicola. Era quella del desiderio. Non fu solo una confessione. Attraverso un tunnel oscuro era passato anche lui dal bisogno alla bramosia. Per questo fu vittima e causa. Il desiderio aveva sedotto anche lui. Gli era entrato dentro. E la droga era stata il suo lasciapassare. Così Pietro si trovò solo a impersonare l’ennesimo figlio marcio generato dal sonno oscuro di quel quartiere. Un quartiere nel quale il Mambli anziché lanciarlo verso il domani lo avrebbe ancorato in un eterno presente. Quello per il quale sarebbe stato ricordato per sempre.

In uno degli episodi di “Mumbly”, il sesto, nel quale si accennava tra l’altro a un ricovero per animali, un automa violento  e corpulento braccava senza sosta il quadrupede sghignazzante e per questo alla fine veniva ritrovato dentro un secchio della spazzatura in posizione fetale, senza un occhio, con le braccia smontate e la testa aperta.
Quel nome storpiato, che veniva da un cartone figlio del “Wacky Races” e che, tramite un consorzio di emittenti, era arrivato nel suo televisore, aveva già detto tutto.

Piero Trellini

Scrive per la Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Domani. Ha lavorato per Il Messaggero, il Manifesto, Sky e altri. Collabora con Nuovi Argomenti e Art e Dossier. Scrive serie televisive. Ha pubblicato “La partita” (Mondadori), “Danteide” (Bompiani), “L’Affaire” (Bompiani) e “La partita. Le immagini di Italia-Brasile” (Mondadori).
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