Sotto e sopra il vulcano

A Stromboli, isola vulcanica dell’arcipelago siciliano delle Eolie, ha aperto una nuova sede del bar “oTTo” di via Sarpi a Milano.

Si chiama oTTo a~mare e si trova in Corso Vittorio Emanuele, a pochi passi dal mare, immerso nel silenzio di un giardino popolato da bouganville, alberi di fico e ulivi.

Di fronte al giardino la scenografia di uno dei vulcani più attivi del mondo illumina le notti mentre si sorseggia un cocktail: l’atmosfera è suggestiva e i dettagli sono in toni freschi e chiari, disposti liberamente attorno al bancone di cannucciato bianco.

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La storia raccontata nel nuovo numero della rivista di oTTo, scritta da Lorenza Pieri, è ambientata proprio a Stromboli.

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Nicola era fissato con Colapesce. Gli piaceva ripetere che Cola era il diminutivo del suo nome e che veniva da Catania, come lui. Viaggiavamo in sette, con pochi soldi. Ci eravamo conosciuti tutti a Siena, universitari fuori sede al secondo anno, quel tanto che bastava a condividere l’euforia di vivere lontani dalle famiglie, il tempo speso insieme a lezione, alla mensa, in piazza, nelle case sovraffollate e arredate male in cui avevamo imparato a condividere stanze e bagni. Sconosciuti che piano piano erano diventati conosciuti, poi amici, poi praticamente parenti stretti.
Io, Sara, Alessia e Nicola eravamo iscritti a Lettere, e Nicola, che era alla casa dello studente, ci aveva presentato Luca, che a sua volta ci aveva presentato la sua amica Silvia che poi era diventata la sua ragazza e lei aveva tirato dentro al gruppo suo fratello Gianni. Avevamo passato insieme quattro semestri e negli ultimi due io, Alessia e Sara avevamo condiviso un appartamento ricavato da una specie di alta cantina con affaccio sulla strada a via di Salicotto.
Sembrava di stare in un negozio. Mio padre aveva detto diverse volte che avrebbe preferito pagare il doppio e sapermi al sicuro dentro un appartamento con almeno un portone, ma a me piaceva proprio che alla gente venisse spontaneo provare a bussare se vedevano le nostre ombre o le luci accese dietro le tende. Tra i più assidui c’era Nicola. Prima di rientrare allo studentato a via Mattioli si fermava da noi e andavamo tutti insieme alla mensa di Sant’Agata che era vicino alla sua residenza oppure lo invitavamo a restare a cena. Nelle serate di autunno e primavera dopo mangiato uscivamo a piazza del Campo o ci incontravamo tutti e sette dallo Zozzo che aveva la tequila bum bum a mille lire.
Erano così belle quelle notti tra noi che durante una di quelle uscite decidemmo di metterci alla prova anche fuori dalla conchiglia del Campo e pianificammo una vacanza insieme alle Eolie in agosto. L’idea era di Nicola, che riusciva sempre in un modo o nell’altro a guidare le decisioni: viaggio al risparmio e campeggio. In teoria avevamo tutti pochi soldi, anche se sia a me che a Alessia i nostri avrebbero permesso senza problemi di andare in albergo tutte le sere. L’obiettivo era stare insieme, adattarci quindi alle scelte della maggioranza e soprattutto di chi aveva il budget più basso ma il carisma più alto, Nicola.

Ci eravamo trovati a Salina, in un campeggio affollatissimo, per poi spostarci dopo tre giorni a Lipari, in un ostello le cui stanze erano al completo e dove non trovammo sistemazione migliore di uno stanzone comune, che in altre stagioni era un refettorio. Ci avevano dato l’uso dello stanzone a una cifra ridicola. Il bagno manco a dirlo era lontano e condiviso con altri cinquanta poveracci come noi. Una situazione molto scomoda, senza la minima privacy, contro la quale avevo opposto un’iniziale resistenza,
poi piegandomi come tutti alla mancanza di alternative a buon prezzo. In effetti quello stare tutti insieme aveva una sua affascinante unicità.
La notte, molto tardi, quando rincasavamo nel refettorio dalla finestra che dava sul giardino perché il portone chiudeva a mezzanotte, ci sistemavamo ognuno nel suo angolo o sul pavimento e sopra i tavoli e spegnevamo la luce. Tenevamo le finestre spalancate sperando che qualche refolo rinfrescasse la stanza surriscaldata, ma nonostante le isole fossero tutte circondate di questa eccitazione reciproca che si davano continuamente mare e vento, lì l’aria era sempre immobile e afosa. Così ce ne stavamo
fermi per non sudare, con la luna che rischiarava quel tanto che ci permetteva di vedere le nostre sagome, poi prima di addormentarci qualcuno faceva qualche battuta, con cui si coprivano i mugugni di piacere di Luca e Silvia che facevano l’amore e di cui eravamo tutti invidiosi, a volte partivano brevi scazzi, prodromi dei litigi del giorno successivo, oppure qualcuno raccontava una storia della buonanotte, come quella notte che Nicola ci raccontò bene di Colapesce.
Il respiro di Sara era già pesante di sonno accanto a me, era ancora così bambina, concentrata sui bisogni primari, mangiare e dormire, a vent’anni portava ancora nel corpo le tracce della soda rotondità infantile, i capelli sottili appiccicati sulla fronte sudata, l’odore acidino ma buono che i neonati hanno nelle pieghe del collo. Immobile di fianco a lei ascoltavo la voce di Nicola nel buio, sentivo le sue vocali aperte e ogni volta che pronunciava il nome di Colapesce immaginavo il suo lungo corpo disteso nel buio, le mani, i suoi occhi e le lunghe ciglia nere che si abbassavano lentamente, coprendo quelle pupille lucide di ossidiana pura.

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Raccontava la leggenda dell’uomo pesce, il figlio del pescatore che riusciva a immergersi in apnea e recuperare tesori e portare testimonianze dagli abissi. Iniziò dalla versione tradizionale siciliana, in cui Cola, accortosi che la Sicilia poggiava su tre colonne ma che una era consumata, si era piazzato per sempre sott’acqua a sorreggere l’isola. E poi passò a quella catanese, in cui il re, curioso di misteri della natura, voleva sapere da Cola cosa ci fosse sotto il vulcano, e lui rispose di aver visto che sotto l’isola c’era il fuoco che alimentava l’Etna. Il re gli chiese allora una prova tangibile, così il giovane disse che gliel’avrebbe fatta avere, ma sarebbe morto per consegnargliela. Il re lo mandò comunque. Così Colapesce si tuffò con un pezzo di legno e non riemerse mai più, mentre il legno tornò in superficie, bruciato. Aveva aggiunto tutte le sue postille politiche, che Cola era una vittima proletaria, uno dei milioni di sacrificati della storia per gli obiettivi dei potenti. Sopportavo poco quando condiva ogni argomento, anche i miti, di discorsi politici retorici, il pauperismo tirato fuori quando dovevamo scegliere il posto in cui mangiare e l’esproprio proletario quando rubava nei supermercati. Non condividevo quasi mai il suo ideologismo applicato a tutto e il suo stile di vita improntato al risparmio spesso mi sembrava pura e semplice tirchieria. Ero attratta fisicamente da lui in un modo incontrollabile, ma pensavo anche che non mi sarebbe piaciuto essere la sua ragazza, che mi sarebbe pesata una vita di coppia costantemente privata di godimenti materiali. Non che amassi il lusso in nessuna forma, ma mi era inevitabile pensare con ribrezzo ai compleanni senza regali, agli anniversari senza ristoranti buoni, ai viaggi sempre con lo zaino su corriere affollate, e tutto con l’alibi della scelta politica.
Questa cosa mi frenava lo slancio anche se alla fine inframezzavo ognuno di quei pensieri spiacevoli a fantasie compensatorie di godimenti di altro tipo, al diavolo i regali i ristoranti e i viaggi se c’era il sesso, se avessi potuto avere un’esclusiva sul suo corpo.
Spesso litigavamo, non era raro che mi scattassero gli occhi al cielo mentre lui parlava, mi irritava poi che gli altri pendessero così facilmente dalle sue labbra, cosa che rinforzava la sua presunzione. Il fatto che io gli dessi torto in modo quasi sistematico lo lasciava interdetto, ma non tanto per i miei argomenti, era come non si capacitasse della possibilità di avere qualcuno contro, per di più una ragazza. Piaceva un po’ a tutte. Anche se Sara e Alessia avevano sempre espresso delle preferenze per Gianni, che
era più sportivo e raramente rompeva i coglioni su quello che era meglio fare. I litigi tra me e Nicola per me avevano sempre una traccia di tensione erotica, ma non mi era chiaro se anche lui li vivesse allo stesso modo.
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Sapevo di piacergli. Una notte di ritorno in macchina da una sagra ad Asciano, strizzati in tre sul sedile posteriore della Panda di Gianni, completamente ubriachi è successo qualcosa di cui non abbiamo mai parlato e di cui conservo ricordi molto vaghi. C’era Sara che come al solito mi dormiva addosso, Nicola dall’altro lato che non sapeva dove sistemare il braccio e nella vaghezza me lo ha passato dietro la schiena, facendosi poi
strada con la mano sotto la maglia, percorrendo la spina dorsale, toccando l’ascella e poi un seno, facendomi coprire di brividi. Forse a quel punto Sara si era svegliata e allora avevamo continuato a fare l’amore con le mani, invisibili a tutti e impassibili nei corpi fermi, con le dita intrecciate tra la mia coscia destra e la sua sinistra, gli premevo forte e a lungo il dito nell’incavo tra il suo indice e il destro, aperti come gambe divaricate, in
un punto morbido e caldo, sfregando su e giù con una pressione costante e intensa, che se ci penso mi fa ancora eccitare, ero io che lo toccavo ma al tempo stesso gli dicevo cosa mi sarebbe piaciuto mi facesse. Poi chissà se è successo veramente, se lui si ricorda qualcosa. Non ne abbiamo mai più parlato, né io l’ho mai raccontato a nessuno. Mi è anche venuto il dubbio di averlo solo sognato.
Durante quei giorni al mare avevo intercettato diverse volte il suo sguardo che si distoglieva appena incontrava il mio, mentre ero in spiaggia, o uscivo dall’acqua con i capezzoli duri di freddo sotto il bikini, però quello sguardo cambiava quando lo contestavo, era come se la rabbia che mi accendeva subito per quello che diceva, rendesse lui ignifugo. Nicola per me era fuoco indurito, lapillo dell’Etna, mi piaceva, mi bruciava. Io e le mie critiche invece forse avevamo su di lui l’effetto di un getto di acqua fredda.
A Stromboli, dopo due ore di una traversata a onde lunghe che mi aveva costretta a tenere la testa di Sara sulle mie cosce mentre a occhi chiusi cercava di non vomitare la colazione, il pontile ricurvo alle pendici del vulcano ci aveva accolto con un’ondata di calore quasi insopportabile, misto a un odore di zolfo: l’inferno che si mescola col paradiso, la bellezza, i colori saturi, il nero e il bianco con le terrazze coperte di buganvillee come interpunzioni, e il tormento del caldo, le zaffate sulfuree che pungevano il naso. Non avendo prenotazioni ci siamo buttati sulla spiaggia di Scari, per tuffarci in acqua subito, correndo sulla sabbia scura e rovente.
Non ci siamo curati di nessun piano per qualche ora, godendoci l’impareggiabile piacere di liberarci di zaini e vestiti tra le barche tirate a secco e stemperare il sudore in quel mare limpido e gelato, che sembrava sempre nascondere qualcosa nelle ombre scure del fondale. Fu Nicola, di ritorno dal bar sciabattando con le espadrillas, a smuoverci: ci ricordò che non c’erano ostelli né campeggi sull’isola e un posto economico per sette non lo avremmo trovato da nessuna parte. Si accese subito una discussione, alla fine della quale erano di nuovo tutti d’accordo con lui che la cosa migliore da fare era l’arrampicata notturna sul cratere del vulcano per poi ripartire l’indomani verso un’isola più accogliente anche per i non ricchi.
Decisi di andare io a informarmi su come funzionavano le escursioni. Misi il pareo e vidi un paio di agenzie, per quella sera c’era posto con un gruppo che partiva a mezzanotte da piazza San Vincenzo. L’escursione prevedeva circa tre ore di cammino con delle pause, l’attesa dell’alba sul cratere e il ritorno al punto di partenza per le otto del mattino, 35.000 lire a persona colazione inclusa. Ero riuscita a trattare per noi a 25.000, mi sembrava un grande risultato. Avevo dato come caparra la mia parte.
Mentre tornavo ad avvertire gli altri soddisfatta della mia intraprendenza realizzai che comunque Nicola avrebbe avuto da ridire sul costo. E così fu. Non solo si rifiutò di riconoscere la bontà della mia trattativa ma disse che era folle spendere quella cifra per una gita organizzata, da vecchi: eravamo in salute, avevamo torce, sapevamo leggere una cartina e lui in vita sua non si era mai perso. Gli spiegai che non era questione di età: era proprio proibito fare le escursioni da soli. Senza guide c’era il rischio di finire in punti dove la lava spuntava in superficie in maniera non visibile.

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Litigammo furiosamente sul concetto di “proibito”. Finì che io persi le staffe e passando per isterica, lo mandai a fare in culo per perseguire la mia “scelta borghese”, come l’aveva definita lui.
La cosa che mi ferì di più era che non mi venne dietro nessuno, neanche Alessia, che come me non aveva problemi economici, né Sara che mi stava sempre appiccicata. Luca e Silvia avevano deciso di restare in spiaggia a “sorvegliare gli zaini tra le barche”, alla fine quel modo strambo di giustificare il loro desiderio di fare sesso senza noi intorno ci aveva fatto molto ridere e l’atmosfera si era un po’ distesa. Nicola preparandosi, mi chiese anche se non avessi cambiato idea, sapeva benissimo che non avrei ceduto mai, mi salutò con un bacio sulla guancia, molto vicino alle labbra, mi disse “allora ti aspettiamo su”. Io tirai da sola fino a mezzanotte nella veranda di un bar a leggere senza concentrazione. La mia escursione filò senza imprevisti. Mi tenni sempre in cima alla fila, come una studentessa diligente, accanto al vulcanologo Bruno che nelle pause ci spiegava i fenomeni delle effusioni laviche, le eruzioni piroclastiche, la storia di Stromboli e dei suoi maremoti. Il nostro cammino era rischiarato da una luna quasi piena che dava al mare calmo un riflesso commovente. Quando arrivammo a vedere la Sciara del fuoco avrei dovuto sentirmi sovrastare dalla meraviglia. Invece la rabbia per il litigio, che pure si era un po’ placata, agiva ancora come una lava che mi bruciava lentamente dentro, trasformava l’incanto che avevo intorno in una specie di spettacolo artificiale. La verità era che non avevo mai smesso di desiderare di guardare tutte le meraviglie che mi circondavano tenendo stretta la mano di Nicola, e ce l’avevo con me stessa per quel desiderio che non volevo provare.

Arrivammo sul cratere intorno alle cinque. Ero stanchissima e l’aria densa rendeva ancora più difficile il respiro già affannato dalla salita. Il magma ribolliva con esplosioni ipnotiche. Cercai di guardarmi attorno per vedere se i miei amici erano lì. Ma era troppo buio. Mi convinsi che non ce l’avevano fatta, che come aveva detto Bruno era impossibile riuscire a trovare la strada senza conoscerla e la cosa più probabile era che avessero desistito. Con Bruno ci sedemmo a una distanza sicura dalla bocca del vulcano ma sufficiente per vedere la lava che continuava a ribollire nel cratere. La vertigine della morte a due passi da me e io che non avevo paura, ma sonno. Mi sdraiai con la testa su un braccio e chiusi gli occhi, prima di addormentarmi mi sembrò di sentire la voce di Nicola. Quando Bruno mi svegliò mi sembrava di aver dormito pochissimo ma era passata almeno un’ora. All’orizzonte una luce rosata iniziava a striare la notte.
“Dobbiamo andare, qua l’aria è tossica e appena si alza il sole, il caldo diventa pericoloso. Per favore aiutami a svegliare anche quel gruppo laggiù, sono arrivati per ultimi e dormono alla grande, mi pare che siano senza guida, forse sono i tuoi amici, se non iniziano a scendere adesso rischiano grosso.”
Ci avvicinammo con le torce ai bozzoli inermi che mi aveva indicato. Il primo su cui puntai la luce era un sacco a pelo che conteneva due ragazzi abbracciati e abbandonati nel sonno, le bocche semiaperte, come due amanti esausti. Erano Nicola e Sara. Il sacco a pelo aveva la cerniera aperta abbastanza perché potessi vedere la mano di lui appoggiata sul culo di lei. Lasciai a Bruno il compito di svegliarli mentre mi occupai di Alessia e Gianni, anche loro in un unico bozzolo. Durante la discesa cercai di restare tutto il tempo accanto a Bruno. Mentre mi buttavo giù dalla montagna di sabbia, pensavo a come scappare, interrompere quel viaggio di gruppo, lasciare Sara, la dolce e infida bambina cicciona, a organizzarsi da sola contando solo sul suo amichetto Cola, ogni passo una piccola valanga che mi trascinava sempre più giù, a salti, balzi e boccate di polvere, “fatti dare una mano da lui quando stai male, al massimo ti ritrovi una manomorta su una chiappa”.
Durante la discesa Alessia era riuscita a raggiungermi e mi aveva raccontato che loro avevano fatto quella stessa strada anche per salire, era per quello che ci avevano messo quasi otto ore per arrivare. A un certo punto si erano persi e avevano incontrato una vulcanologa che gli aveva intimato di tornare indietro, ma su insistenza di Nicola che voleva proseguire a tutti i costi, gli aveva indicato l’unica strada non pericolosa, la Rina Grande, il canalone di sabbia usato per scendere. Ma secondo lei era impossibile risalire da lì, in dieci anni che veniva a Stromboli non aveva mai sentito di nessuno che lo aveva fatto al contrario. Nicola non aveva mollato, e avevano impiegato tutta la notte, un passo avanti e tre indietro per risalire quello che avevano ribattezzato “il sabbione”. Alessia aveva le vesciche ai piedi ed era così stanca che aveva fatto fatica anche a raccontare.
Una volta arrivati andai a riscattare la mia colazione inclusa poi raggiunsi gli altri sulla spiaggia per il bagno purificatore. Avevo i muscoli intirizziti, ero coperta di polvere e volevo soltanto tuffarmi e poi sdraiarmi all’ombra a dormire qualche ora, prima di dire a tutti che non avrei preso con loro l’aliscafo per Vulcano. Mi stavo togliendo le scarpe da ginnastica e i calzettoni quando Nicola mi passò accanto veloce per arrivare in acqua prima di me. Mi disse, “alla fine avevi ragione, ma la nostra notte è stata più memorabile della tua.” Corse a tuffarsi e scomparve rapidamente sott’acqua. Avrei voluto non dare l’impressione di seguirlo ma quello che aveva percorso era il tratto più rapido verso il mare. E mi buttai dietro di lui. Nuotai, non lo guardai riemergere. Non volevo pensare a niente. Volevo che il gelo dell’acqua mi paralizzasse il cuore. Mi limitai a rilassare i muscoli facendo il morto a galla, chiusi gli occhi. Ascoltavo il mio respiro e il rumore dei motori delle barche, temevo di addormentarmi. Sentii qualcosa che mi toccava un braccio poi si appoggiava sul seno. Aspettai un attimo prima di aprire gli occhi. Volevo che il tocco si ripresentasse, con una presa, ma non successe niente.
Quando mi tirai su vidi che mi galleggiava accanto un pezzo di legno bruciacchiato. Mi guardai intorno terrorizzata, al largo non vedevo nessuno. Guardai verso la spiaggia.
Cola era a riva, alto e lucido, che si asciugava al sole. Risi di me e nuotai indietro anch’io.

 Ottopagine

OTTOPAGINE è una freepress bimestrale edita da oTTo. Sono semplicemente otto pagine, appunto, con in copertina una grande foto satellitare di un luogo del mondo. Ogni numero è una storia di quel luogo, raccontata da un autore.