Una breve passeggiata
Una newsletter di
Una breve passeggiata
Michele Serra
Martedì 31 ottobre 2023

Una breve passeggiata

(Leon Neal/Getty Images)
(Leon Neal/Getty Images)

Ma a voi non viene mai la voglia di chiudere porte e finestre a quella tempesta ininterrotta di immagini e parole, prevalentemente funeste, che ci ostiniamo a chiamare “informazione”? E di non volerne più sapere, di come va il mondo, perché il mondo – da sempre – va troppo male per reggerne la presenza, tutta intera e tutta assieme? E dunque meglio soli che male accompagnati, meglio l’orticello e le stelle, poi se arriva il missile che ci incenerisce pazienza, almeno fino a un secondo prima eravamo felici e inconsapevoli?
Già il termine “informazione”, per definire l’immane flusso mediatico dentro il quale viviamo immersi ogni singolo secondo della nostra vita, suona generosamente razionale e ottimista. Risale a quando si presumeva che ognuno, prima o poi, avrebbe potuto e dovuto “informarsi”, cioè saperne di più e regolarsi meglio. Migliorare come cittadino, forse anche come essere umano. Il concetto di “opinione pubblica”, baluardo di una democrazia sana, andava di pari passo.
Anche Totò, a modo suo, aggiunse il suo mattone alla fede moderna nell’informazione, con la prodigiosa battuta “si informi: lei è un cretino!”. Ma già qualche novecentesco pensoso, in tempi ancora ampiamente precedenti la Rete e i social, avanzava dubbi sul concetto stesso di opinione pubblica. Giorgio Gaber (credo attraverso il suo grande amico Battiato) citava spesso Gurdjieff, mezzo filosofo mezzo santone, danzatore e mistico, secondo il quale “il giornalismo è il male del secolo”, perché “sottopone gli uomini a ogni genere di inganni e di errori”. E il buon Gurdjieff non aveva ancora visto un talk su Retequattro.

Questo (il Post) è uno dei pochi avamposti (avanpost…) nei quali si lavora ostinatamente affinché la tigre mediatica possa essere domata e cavalcata. Per la serie: si valuta e si decide che cosa raccontare e come raccontarlo senza farsi troppo impressionare dal fatto che tocca pescare dieci sardine, quelle giuste, dentro un banco di dieci milioni di sardine. Tutti i giornali (altro nome travolto dai tempi: che cosa è rimasto di “giornaliero”, nel flusso mediatico? Ogni testata on line dovrebbe chiamarsi “minutale”, o “secondale”, altro che giornale), tutti i giornali, stavo dicendo, dovrebbero farlo, no?
Ma i dieci milioni di sardine sono là fuori, sono tutte attorno, rigurgitano dai video e dai cellulari, pullulano senza una parvenza di disciplina e di senso nei social (dove diventano dieci miliardi, ognuna moltiplicata e deformata), centinaia di network le convogliano non solo nelle nostre case ma proprio sulle nostre persone, in macchina, per la strada, ovunque. Montagne di parole ci franano addosso, tempeste di immagini ci bombardano, i cingoli dei tank ci sembrano sotto casa, e poi le macerie fumanti, i bambini morti, le donne lese e segregate, le menzogne ignobili dei potenti, gli scandali e l’avidità della gente comune, le guerre e le miserie, il fanatismo religioso e quello politico, il solito vecchio andamento cruento, spietato della Storia: come possiamo essere il terminale di questo assalto emotivo senza nascondere la testa sotto il cuscino o senza diventare cinici, per la serie “non posso farci niente, tanto vale non saperne niente”?

Ovviamente non ho soluzioni da dare, e neppure buoni consigli: solo il cattivo esempio, perché non c’è dubbio che, con il mestiere che faccio, dovrei contemplare con lo sguardo saldo la tempesta mediatica e indicare qualcosa che assomigli a una rotta. E invece oggi vi scrivo solo per dirvi: spegnete tutto e fatevi una passeggiata. Prendetelo come uno sfogo del momento, l’ennesima manifestazione di sgomento di fronte all’ennesima progressione geometrica di qualcosa che ieri, appena ieri, era dieci sardine e oggi è dieci milioni di sardine. Forse tutto è cambiato troppo in fretta (tipica frase da boomer), sta di fatto che la tentazione dell’ “off” di fronte alla dittatura dell’ “on” mi viene sempre più spesso. Poi, dopo una passeggiata a cellulare spento, torno a casa e accendo, in un colpo solo, il computer e la televisione. Mi sento ripulito e pronto al nuovo assalto.

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Come era prevedibile la mia difesa della “ragazza vassoio” di Verona, o meglio della sua scelta di vestirsi da vassoio senza sentirsi mercificata, e del suo fastidio nel vedersi compatita, ha suscitato un vivace dibattito tra i lettori di questa newsletter. Per la prima volta (c’è sempre una prima volta) mi vedo messo in minoranza: nel senso, evidente, che le opinioni contrarie alla mia sono la maggioranza. Ne prendo atto, questo è (anche) uno spazio di discussione e il bello delle discussioni è che nessun punto di vista garantisce il comfort del consenso.
A quanto scritto la settimana scorsa aggiungo solo questa postilla, forse utile. Riconosco di avere, sui temi che sfiorano oppure centrano in pieno l’uso del proprio corpo, l’eros, la libertà sessuale (vera o presunta), il forte timore che sia alle porte, anzi sia già in corso, una stretta moralista, con una forte componente sessuofoba. Non mi piace l’approccio puritano che appesantisce e dirotta, soprattutto in America, le sacrosante campagne contro le molestie sessuali, e tende a buttare nel sacco dell’abuso anche ciò che non intendeva esserlo, o addirittura non lo è proprio. Temo l’instaurazione di un Nuovo Canone Morale, con conseguenti roghi e roghetti, giudiziari e mediatici, che minacciano di colpire nel mucchio. Mi sento abbastanza capace di riconoscere, alla mia età, quello che è violento e imperdonabile da quello che è solamente goffo e perdonabile. La Colpa, care mie e cari miei, è il drago che dobbiamo trafiggere, se vogliamo davvero diventare migliori, più gentili e più aperti alle vite e alle scelte degli altri.
Qui di seguito, con inevitabili tagli del curatore (che sarei io), molti dei vostri interventi sulla Ragazza Vassoio.

“Credo ci si possa indignare anche per chi non si indigna. Si chiama etica pubblica. Ancora di più, si chiama politica, che non è cura dell’interesse personale. La sindrome di Stoccolma esiste. E se la lotta di liberazione dallo sfruttamento deve ovviamente partire dagli sfruttati, c’è qualcosa che Marx (non era un proletario) chiamava maturazione della coscienza di classe, che in una visione intersezionale si può anche chiamare maturazione della coscienza di genere. Se è possibile ‘prendere coscienza’, significa che è possibile non averla ancora. Un compito dell’intellettuale è anche quello di vedere le storture che ad altri sfuggono, anche a chi ne è vittima”.
Michele Smargiassi

“…Quindi va bene anche servire il sushi sul corpo nudo di una donna tavolino, posto che nessuno l’ha costretta e che l’ha scelto liberamente? (recente fatto di cronaca)”. A volte ‘indignarsi per conto di chi non si indigna può anche ferire il non indignato’, come lei scrive, ma può ricordare che l’educazione al buon gusto aiuta al rispetto di sé e verso tutte le donne, e a non considerare normale la mercificazione del proprio corpo. Anche nei piccoli ‘eventi’ di tutti i giorni. Quanto alla parità di trattamento con il cameriere–pavone, non mi soffermerei molto, posto che la tematica ‘uomo oggetto’ non è poi così rilevante”.
Elisabetta

“Bravissima Michelle! Tutta questa vicenda riprova che l’idea generica che la società ha dei giovani è quantomeno paternalistica. Peraltro, più o meno intorno ai 20 anni, – dopo un provino per dimostrare di essere in forma e abbastanza avvenente – mi son prestato ad una campagna pubblicitaria del canale TV Cielo, in t-shirt bianca e due posticce ali da angelo: imbarazzanti sotto ogni aspetto. E non avevo nemmeno l’università da pagare, oltre che non avere lontanamente il tipo di consapevolezza di questa ragazza. Ci rido su per dissimulare la vergogna. Malgioglio peraltro fa molto di peggio. Regolarmente. E nemmeno ha l’università da pagare, credo”.
Stefano (che ha la metà dei suoi anni)

“Se la vicesindaca di Verona dice che le ragazze-vassoio sembrano un esempio di mercificazione della donna, la discussione è se la percezione della vicesindaca sia o meno condivisibile da altri. E non è legata necessariamente alla percezione di alcuni individui specifici né tantomeno a quella di una o più ragazze-vassoio. Questa discussione dovrebbe condursi a prescindere dalle specifiche percezioni di ognuno dei contrattisti (così come quella sulle tette e i culi onnipresenti sui nostri media dovrebbe prescindere dalle percezioni, rispettabilissime, delle modelle interessate). La mercificazione del corpo è un concetto filosofico ed un’accusa concreta ad un certo modo di fare le cose oggi molto comune. Io credo che tale discussione andrebbe affrontata con strumenti più adeguati rispetto a chiedere ai diretti interessati se si sentono o meno mercificati. Se seguiamo questo criterio, allora finché i soggetti sfruttati e mercificati non ne prendono coscienza, la società non avrebbe nessuna colpa a reiterare queste azioni?”
Mauro Saveri

“Mi autodenuncio, da boomer: 40 anni fa ho fatto molti lavoretti per avere qualche soldino in tasca durante l’università. Spesso facevo la hostess nei Saloni a Torino, all’epoca ce n’erano tanti. Si richiedevano gonna o vestito corto (al ginocchio) e tacchi. Non mi sono mai sentita mercificata, semplicemente le ragazze dovevano essere carine e sorridenti. Durante il mio lavoro successivo tra i 25 e i 30 ho frequentato per un’agenzia di comunicazione un’importante azienda in cui il 90% dei miei interlocutori erano uomini. Non ho mai avuto problemi a sfruttare il fatto che ero giovane e donna e quei pochi che hanno fatto i provoloni li ho sempre sistemati con un sorriso o una battuta. Gli altri hanno sempre rispettato il mio ruolo e la mia professionalità. Non riesco a capire cosa sia cambiato così drasticamente in questi anni. Tutto è così definito, manicheo, rigido, ma anche confuso e fraintendibile fino all’eccesso. Un po’ mi fa paura, un po’ ritengo che manchi della leggerezza e dell’ironia che sono strumenti utili per sfuggire a questa cappa plumbea e bacchettona che ci sta ammorbando. Forse una risata ci seppellirà tutti. Sarà un bel giorno”.
Maria Cristina

“Da tempo provo fastidio verso gli autoproclamati paladini della morale (per loro) unica e dai contorni nettissimi. Non sopporto quelli che si alzano in piedi occhieggiando attorno e cominciano ad applaudire con cenni decisi il tribuno di turno, quasi rimproverando la lentezza di approvazione degli altri. Mi provoca orticaria la parola ‘vergogna!’ usata quasi sempre a sproposito da piazze urlanti, politici e tuttologi. Se penso poi a certi integralismi da cancel-culture, potrei diventare violento. Invecchiando sto diventando intollerante verso gli intolleranti (quindi anche verso me stesso?). Detto questo, l’unico sfregio (veniale) che colgo nella vicenda delle ragazze-tavolino è quello al buon gusto, per quel che vale e sempre che sia ancora vivo”.
Marco

“Capisco il ragionamento sulla libertà e il diritto all’autodeterminazione della signorina Michelle, ma questo cos’ha a che vedere con la critica mossa dalla vicesindaca di Verona agli organizzatori dell’evento? Il punto non è se sia un diritto o meno quello di Michelle di tavolinizzarsi. Piuttosto, se per un evento culturale sia opportuno (anche moralmente) proporre individui-oggetto al posto di camerieri. Al di là della questione di genere, ci vedo una questione di classe. L’inserviente è oggetto, e perde la sua dignità di persona. Trovo giusto discostarsi e chiedere che l’offerta migliori. In questo senso, il fatto che Michelle rivendichi il diritto a mercificare se stessa è secondo me esemplare del condizionamento che la nostra cultura porta su chi svolge determinate professioni. Da questa critica lei si smarca abilmente chiamando ad esempio le prostitute del ’68. Io all’epoca non esistevo, ma sospetto che il contesto di allora fosse molto diverso da quello odierno. Quello che vedo oggi, anche dalle risposte alla sua newsletter (per lo meno per come le interpreto io), è una società in cui una via facile al denaro è da preferire allo sforzo di costruirsi una cultura ed un sapere che siano poi spendibili in più contesti”
Federico De Marchi

“Io credo che sia del tutto irrilevante, ai fini dell’indignazione che suscita, che la ragazza tavolino interpreti questo ruolo con piacere. Del resto è precisamente una sua libertà come individuo farlo, ciò non toglie che un’altra donna, le donne, abbiano il diritto di indignarsi per l’uso servile e di sottomissione che suscita questa performance. Io la vedrei proprio, ma so che non è così, come una denuncia del ruolo delle donne attraverso una rappresentazione simbolica”.
Maria Maddalena Springhetti

“Ovviamente ogni persona, donna o uomo che sia, ha diritto, entro i soliti fatidici limiti della convivenza, a comportarsi secondo la propria sensibilità accettando per bisogno o piacere qualsiasi ruolo o impiego. Mancano però nel suo articolo le considerazioni su chi invece ha organizzato questa festa ritenendo originale la trasformazione di chi offre un servizio in oggetto decorativo. Verona in questo senso non a caso, perché qui più che in altri luoghi pare ci sia il bisogno di spettacolarizzare l’opulenza in ossequio alla ricchezza degli ospiti per i quali, come in un passato mai troppo lontano, servire è sinonimo di servile”.
Giulio

“E meno male che la ragazza non era di colore, altrimenti si sarebbe parlato di ritorno allo schiavismo. A volte temo che si dia risalto a questi piccoli fatti di cronaca per non affrontare problematiche assai più gravi ed importanti”.
‘Papà’

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Lo spazio “Zanzare mostruose”, piccolo archivio di titoli di giornale sfuggiti di mano ai loro stessi autori, oppure cinicamente enfatici a scopo di imbonimento, o ancora di scellerata sbracatezza, comincia a funzionare.
Claudio segnala una locandina del Giorno che mi sembra notevole:
Seppellisce il criceto e batte il capo: è gravissimo.
Si noti il rapporto di causa-effetto, dato per certo, tra le giuste esequie offerte a un roditore e il rischio di raggiungerlo nell’oltretomba.
Prima di dare spazio agli altri titoli proposti dai lettori, una doverosa avvertenza di tipo, diciamo così, umanitario: parecchi di questi titoli riguardano disgrazie e tragedie che meritano rispetto e compassione. Non è certo agli eventi reali, dunque, che dedichiamo il nostro buonumore, ma alla loro impaginazione. Sono i titoli di giornale, per primi, a trascurare che si sta parlando di esseri umani…

Michele Paoli rammenta un titolo di parecchi anni fa sull’autorevole Alto Adige:
Mangia una trota, bambina fulminata.

Francesco Ferrari ci rimanda a uno dei titoli della premiata ditta Cronaca Vera, scusandosi perché cita a memoria:
Ustionato dalle meduse giganti mentre insidia la bella bagnante travestito da mostro marino.

Stefano segnala, su Repubblica.it, la presenza di Putin all’inaugurazione di un “missile basilistico”. Il refuso, in questo caso, indica nuovi orizzonti: la balistica in versione orientale, santificata da Basilio.

In molti segnalano, da Repubblica edizione romana, Rottweiler precipita dal terzo piano e colpisce donna incinta. È uno dei rari casi nei quali l’assurdità del titolo ricalca fedelmente l’assurdità dell’accaduto. Dunque, titolista assolto.
Più di una segnalazione anche per il recente
Overdose di Viagra durante un festino gay a casa di un prete, vescovo polacco si dimette.
Ma anche qui, l’impressione è che colpevole di esagerazione non sia il titolo, ma la realtà dei fatti. La vita, a volte, è perfino più sbracata dei media.