Un Giubileo per ogni stazione
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Un Giubileo per ogni stazione
Michele Serra
Martedì 4 aprile 2023

Un Giubileo per ogni stazione

(L'Osservatore Romano/Vatican Pool via Getty Images)
(L'Osservatore Romano/Vatican Pool via Getty Images)

Da un’auto-indagine tra gli studenti del Berchet (uno dei licei classici più classici di Milano) emerge un clima poco sereno. «Oltre la metà di chi ha partecipato [303 allievi su 533, ndr] soffre di stress e ansia a causa della scuola, il 53 per cento sente una forte pressione da parte degli insegnanti, il 57 per cento non affronta con serenità le prove orali e scritte» (cito da una dettagliata cronaca di Sara Bernacchia su Repubblica). Gli studenti che hanno cambiato istituto sono 56, su 906 totali.

Il preside Domenico Guglielmo riconosce che ci sono «delle fragilità che stiamo già tentando di affrontare». Con supporti didattici, tutoraggio di studenti più grandi che aiutano i più giovani, l’aiuto di una psicologa. La studentessa Biancamaria Strano, rappresentante d’istituto, chiede di «cambiare una concezione di scuola sbagliata. A partire dal rapporto tra insegnanti e studenti: chiediamo maggiore sensibilità e attenzione per gli allievi, che non devono sentirsi aggrediti e vedere quindi aumentare i livelli di stress».

Torna in mente il discorso di un paio di mesi fa, molto cliccato in rete, di Emma Ruzzon, rappresentante degli studenti universitari di Padova, di fronte al Senato accademico. Questi gli stralci che mi hanno più colpito (ma l’intero discorso era di notevole sostanza, la versione integrale è in rete): «Sentiamo il peso di aspettative asfissianti che non tengono in considerazione il bisogno umano di procedere con i propri tempi e nei propri modi. Siamo stanchi di piangere i nostri coetanei (il riferimento è ad alcuni casi di suicidio, ndr), […] serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema meritocentrico e competitivo. […] Viene richiesto di eccellere nella precarietà. […] Ma quand’è che studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare? La corona d’alloro non deve significare l’eccellenza, la competizione sfrenata. Deve essere simbolo del completamento di un percorso che è personale, di liberazione attraverso il sapere. […] Stare male non deve essere normale».

Gli studenti del Berchet e la studentessa di Padova dicono cose giuste e importanti (importanti non solo per loro: per tutti, adulti in primo luogo). Specie la critica dell’ipercompetitività e dei suoi danni è musica per le orecchie del vecchio hippy che ancora mi abita, e quando lavoro troppo mi prende per i fondelli e mi invita a fare due passi nel bosco con lui (è uno che abbraccia gli alberi, faccio finta di non conoscerlo). Poche cose sono più “di sinistra” dell’appello a rallentare, della ricerca di una nuova misura umana, di un passo diverso. La paranoia aziendalista, che tritura la libertà di spirito prima ancora di triturare gli esseri umani, deve essere tenuta a debita distanza dai luoghi di studio, perché ha ragione Emma, “formarsi” e “performare” non sono lo stesso verbo. E sì, «stare male non deve essere normale».

Ora, però, vi beccate il boomer. Non riesco a tenermi dentro un dubbio non tacitabile: nel senso che continuerebbe a parlare anche se lo imbavagliassi. Il dubbio è questo. La capacità di sopravvivere ai traumi, o più banalmente alle sconfitte, o più banalmente ancora alle prove, è una componente strutturale della vita (la vita in ogni sua forma: animali, piante, ecosistemi, esseri umani e comunità di esseri umani). Non esiste percorso rettilineo, non esiste la vita indenne, non esiste il rischio zero, non esiste il risultato senza sforzo (quest’ultimo concetto, lo so, è proprio da cara, vecchia, pedante prof di latino e greco). E dunque, nell’assenza oggettiva – oggettiva! – dell’opzione “zero stress”, bisogna attrezzarsi a considerare lo stress, meglio se in modica quantità, come un’eventualità da affrontare. Come qualcosa che c’è, e non possiamo illuderci di abolirla.

Il mio timore è che almeno alcune delle sofferenze, delle fragilità, degli sbandamenti “da stress” siano dovute, nei ragazzi e non solo, a un notevole calo della capacità di incassare i colpi. In termini pugilistici, stiamo diventando una società di cattivi incassatori. E sono convinto che questo sia un calo “culturale”, nel senso che lo stress in sé (ovvero: l’essere sottoposti a una compressione, a una “stretta”: stress è un’anglizzazione del latino strictus, ho fatto il classico…) minaccia di diventare, a furor di popolo, un’offesa insostenibile e un danno irrimediabile. Essendo, invece, una delle circostanze della vita individuale e sociale di ciascuno. (Vedi anche, in versione ben più feroce di questa mia bonaria omelia, L’era della suscettibilità di Guia Soncini). Il rischio è promuovere a grave trauma, grave incidente, anche inciampi e malesseri che non meriterebbero tanto onore. Esiste un’ansia patologica, esiste un’ansia fisiologica, e non sono la stessa cosa. La prima chiede terapia, la seconda si affronta chiacchierando con le persone vicine e bevendo qualcosa di buono con loro.

Forse il mio amico Vittorio Lingiardi (psichiatra) non sarà d’accordo – quelli come lui sono in trincea, nella battaglia contro lo “stare male” – ma è come se esistesse, particolarmente a livello giovanile, un’“ansia percepita” che è superiore all’ansia reale. Ovviamente, per chi la percepisce, il problema rimane identico a prima: la subisce e ne soffre. Ma una “sdrammatizzazione” dell’ansia, almeno di una grossa fetta della torta d’ansia che incombe, un richiamarla all’interno della fenomenologia della vita, delle cose che capitano, di una non straordinaria casistica, a me sembra importante. Se non altro per mettere meglio in scala la gravità delle cose: un’interrogazione andata male, o la frase sgradita di un professore, non hanno lo stesso peso di un lutto o di un amore infelice. Non meritano di averlo. Mai lasciarsi sfuggire un “ahia!” troppo grande di fronte a un nemico troppo piccolo.

Del mio liceo ricordo, tra tante cose belle, anche le grandi paure, lo stomaco chiuso quando una sadica prof di matematica estraeva a sorte le vittime da interrogare, notti insonni per recuperare irrecuperabili quantità di libri di testo mai aperti (ho felicemente sperperato centinaia di ore al cinema e al biliardo: in via Torino a Milano, dietro il mio liceo, il cinema Rubino e la sala giochi erano a braccetto, come il Gatto e la Volpe), le febbri simulate pur di evitare un compito in classe che mi avrebbe spappolato, e almeno un paio di prof – ma solo un paio – ai quali non porterei i fiori al cimitero. Una dose di sofferenza c’è stata. Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma dal mio bilancio, potendo, sono ben altri gli stress dei quali avrei preferito essere sollevato. E dunque, finale da boomer: ragazzi, dal punto di vista dello stress il peggio, ve lo assicuro, deve ancora venire. Per consolazione sappiate che, a diciotto anni, anche il meglio deve ancora venire. E una delle poche cose che possono fare gli adulti per voi è dirvelo un po’ più spesso, che il meglio deve ancora venire, invece di ripetere sui loro giornali che il mondo va a rotoli e il futuro è tutto già stato consumato.

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In sostituzione dell’autista che doveva venirmi a prendere alla stazione di Firenze arriva la sua ragazza, intorno ai venticinque anni. Lui ha avuto un contrattempo. Lungo il viaggio, chiacchierando, scopro che è rumena solo perché me lo dice lei: parla un italiano perfetto, nessun accento a parte una leggera, educata cadenza umbra. Ha due lauree (una in comunicazione pubblicitaria, se ricordo bene) e non trova lavoro. Ha spedito uno sciame di curriculum, inutilmente. Mi dice che non capisce se a ostacolarla maggiormente siano le due lauree o il fatto di essere rumena. Tutte e due le cose, penso io.
È anche andata a Bolzano a fare un concorso per macchinista di treno. Non l’hanno presa e le è dispiaciuto, le sarebbe molto piaciuto guidare un treno. Non so perché mi torna in mente la bella lettera che mi scrisse Caterina, «non vedo le barche volare». Le chiedo se questo cercare senza trovare le dia ansia, mi risponde di sì. Va da uno psicologo, è contenta di andarci, non lo ha ancora detto a sua madre. Mi dice che quando va dai suoi nonni in Romania entra in un altro mondo. Campagna, animali, poche cose. Nessuno stress. «Non hanno niente e sono felici». Proprio così mi dice, e qui mi fermo perché si aprirebbe un discorso fluviale, ma fluviale tipo Mississippi. Ve l’ho raccontata così.

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Arrivo a piedi alla stazione ferroviaria di Assisi. Non la riconosco da lontano: la facciata è pulita e luminosa, quasi smagliante nel verde, anch’esso curato, sembra una villa ottocentesca. Abituato alle tante stazioni “minori” scrostate e sordide, proseguo solo perché i cartelli indicano che la stazione è proprio quella. Vista dall’interno è ancora meglio. Pensiline e lampioni restaurati, marciapiedi lindi, pavimenti degni di una casa, sale d’aspetto che non fanno pensare, appena ci entri, se hai fatto il richiamo dell’antitetanica. Come spesso capita, decoro e bellezza del luogo sembrano contagiare anche i viaggiatori, silenziosi e gentili, in attesa, come me, del regionale veloce per Firenze.
Il mistero è presto svelato. Una lapide, anch’essa linda, fa memoria che “in occasione del Grande Giubileo del Duemila le Ferrovie dello Stato hanno restituito all’antica dignità la stazione”, eccetera. Penso alle centinaia di stazioni ferroviarie italiane trattate da rifiuto non riciclabile. Lerce, con i binari pieni di erbacce, tutto rotto o quasi. Forse ci vorrebbe un Giubileo per ogni stazione. Ma un Giubileo specifico, che non distingua tra Assisi e i luoghi sconsacrati. Un Giubileo dei treni, e la ragazza rumena alla guida del convoglio inaugurale.

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Impossibile dare conto della nuova bordata (un’ottantina di mail) di “biglietti per Al Bano”, ovvero di allegre ammissioni di colpa in favore di consumi culturali o abitudini, diciamo così, molto pop. Questa settimana scelgo di pubblicare una lettera abbastanza controtendenza, che mette qualche paletto ai nostri guilty pleasure. Eccola.

«Vorrei dire una cosa che in genere dà fastidio: la musica non è tutta uguale perché tanto è musica, né lo è l’arte in generale. La differenza c’è, ed è nella qualità del metodo compositivo, ovvero nell’astuzia con cui è usata una tecnica, nella ricchezza delle sue associazioni e via discorrendo, a prescindere dalle altezze o dalle bassezze. In sintesi: se uno ascolta Vasco Rossi, o i Queen o gli arciBeatles sente dell’intelligenza formale, della sagacia negli arrangiamenti, delle soluzioni armoniche geniali. Giorgio Gaslini mi raccontò di come avesse passato una notte in Kenya a tradurre un motivo ritmico ascoltato a una festa locale nel profondo del paese, così straordinario, e unico, che si ritenne in dovere di voltarlo nelle chiavi della sua conoscenza eurocolta. E mica per colonialismo ma per il contrario, per farlo sentire altrove che in un villaggio keniota».

«L’argomento mi sta a cuore. Non nego che uno possa trovare il godimento in Al Bano ma Al Bano, che certo è pop, è peggio che rozzo: informe. Kylie Minogue, la popstar, è raffinata, colta nel suo. Cercare appagamento in un libro (la pessima letteratura fa i fatturati di tutte le grandi case editrici) o un film fatto male, rozzo, squinternato come gli antichi cinepanettoni o i recenti insuccessi di Verdone (che pure ho amato moltissimo agli esordi proprio perché girava bene), a prescindere da tutto, è una colpa non dissimile da quella dell’ignoranza. È un volersi male, un deprimere il gusto. Ho guardato e riguardato tonnellate di film italiani antichi e sono fatti da dio, tutti senza distinzione. La super pop Wertmüller faceva dei film fatti semplicemente bene. Fare bene, ecco. Significa scrivere bene un film, saperlo montare bene, musicare bene, con precisione, con il sapere che cos’è un punto macchina che sia uno, con gusto per il proprio lavoro. Il ben fatto si vede e si sente. Io guardo persino serie colombiane (una per tutte, Perdida) e l’impareggiabile Yellowstone (quinta stagione) perché fatti con perizia compositiva. Un’ultima cosa: io sottoscritto ho guardato due volte tutti i 14 anni di ER. Poi Almodóvar, vabbè, macché te lo dico affa’…».
Pasquale D’Ascola