Le fave se ne fregano
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Le fave se ne fregano
Michele Serra
Martedì 30 aprile 2024

Le fave se ne fregano

«Se si perde il concetto che ogni persona è quella persona, e che in nessun caso, mai, si nasce macchiati dal peccato originale, beh allora la lunga catena dei sensi di colpa non sarà mai recisa»

(Alex Kent/Getty Images)
(Alex Kent/Getty Images)

Ormai sono quasi cinquant’anni che scrivo, eppure ci sono argomenti che mi mettono in soggezione. La ragione non è: non ne so abbastanza. Quella è una ragione che vale per quasi tutto ciò di cui si scrive. Se si dovesse scrivere solo di ciò che si conosce approfonditamente, l’intero coro mondiale delle tastiere ammutolirebbe, e le dita dei digitanti ciondolerebbero inerti, a milioni, a miliardi.

No, la ragione è che attorno a certe storie, a certe discussioni, si intuiscono ferite, sommovimenti epocali (ecco, ho scritto epocali) e furibondi conflitti interiori che suggeriscono prudenza. Tutta la questione “genere”, per esempio; e le conseguenti novità, non solo di linguaggio; e la rimarchevole differenza, in questo campo, tra l’esperienza quasi scontatamente binaria della maggioranza dei boomers, e quella molto più interrogativa e fluida della giovane umanità a noi successiva; beh, non mi è facile farmene un’idea ben definita. Non mi è facile parlarne, a volte mi sembra indelicato, o grevemente intrusivo, e spesso mi sono rimangiato cose che avrei voluto (dovuto?) dire, e non le ho dette perché non ne ero sicuro, o erano troppo emotive, o troppo poco ragionate. Oppure erano troppo “mie”, legate alla mia stratificata esperienza di vita, e dunque qualcuno avrebbe veramente potuto dirmi: “ok boomer!”, e considerare irrilevanti, risapute, le mie parole.
Ora mi arriva una mail che mi colpisce – perché non è ideologica, è un racconto. E la pubblico volentieri, anche se è lunga, perché mi aiuta a introdurre un argomento sul quale, solo soletto, magari avrei preferito glissare. Grazie a Michela, dunque, che prende la parola su un tema complicato e forse ci aiuta a prenderla anche noi.

“Caro Michele,
da 24 anni collaboro, come interprete, con una scuola italiana di formazione per psicoterapeuti infantili di impostazione post-freudiana, che organizzano seminari con terapeuti della Clinica Tavistock di Londra. In tutto questo tempo ho avuto la possibilità di diventare amica di vari terapeuti, tutti più grandi di me (avevo 28 anni quando ho iniziato, stiamo invecchiando insieme). Avere scoperto la psicoanalisi da dentro, vista dagli occhi dei terapeuti, è stato un regalo. Quando ho iniziato a capire di più delle cose che traducevo, ho avuto una specie di illuminazione. Questi terapeuti sono professionisti incredibili e persone generose, intelligenti, calorose. Siamo diventati amici, siamo stati (con la mia famiglia) ospiti presso molti di loro, alcuni sono venuti a stare da noi. Abbiamo partecipato alle reciproche vite anche al di fuori del rapporto di lavoro”.
“Pochi giorni fa ero con uno di loro. Mi raccontava con sconforto di quello che sta succedendo non solo alla Tavistock (ne ha scritto anche il Post alcuni giorni fa, sulle pratiche legate alla disforia di genere) ma in generale in Inghilterra, preda di una impostazione ‘woke’ che sembrerebbe inghiottire tutto il resto (e il suo sconforto non era: non si può più dire niente). Questo terapeuta e insegnante mi diceva che sta seriamente pensando di smettere di insegnare: ‘mi chiedono di inserire l’argomento della diversità nelle mie lezioni su Wilfred Bion’ (1887/1979, pioniere della psicanalisi inglese, ndr). Mi ha raccontato che fa terapia a una studentessa nera che si sta formando come terapeuta, e stanno arrivando ai ferri corti (lui è una delle persone più pacate, aperte, resilienti, competenti e generose del proprio sapere che si possano incontrare), perché nella terapia sembra esserci spazio solo per una visione delle cose filtrata attraverso la lente del genere. Mi ha confessato di stare diventando molto insofferente e di averle proposto di andare da un terapeuta nero (non perché pensa che sia la cosa giusta, ma perché non ne può più), ma lei gli ha risposto: ‘non servirebbe, i terapeuti neri sono noci di cocco, neri fuori ma bianchi dentro’. Lungo momento di silenzio”.
“Alcuni giorni fa mi è stato proposto di diventare consigliere per il piccolo comune in cui vivo, in provincia di Bologna. In quanto donna. E lì mi hanno subito perso. Perché le quote rosa e le riserve dei panda mi urtano profondamente. Anche Meloni è una donna, così come Schlein, non mi sembra faccia una gran differenza. La persona che mi ha chiamato ha spiegato che solo le donne possono capire quello che succede alle donne. Ho detto no, grazie alla psicoanalisi non credo che solo le donne capiscano davvero le donne. Come diceva sempre una delle mie terapeute preferite: se dovessi lavorare solo con persone come me, donne inglesi di mezz’età bianche con un retroterra di un certo tipo, che senso avrebbe? Certo siamo diversi, ma siamo diversi non solo perché siamo donne o uomini. Esiste sempre la possibilità di cercare di mettersi nei panni altrui e cercare di capire. Che grandissima tristezza: questo andazzo, intendo”.
Michela

Michela ci racconta, in sostanza, che la coscienza delle discriminazioni (woke vuol dire: essere consapevoli, svegli, attenti) rischia di generare, o ha già generato, insieme a molte cose positive – per esempio un’aumentata attenzione per le condizioni degli altri – una specie di controcultura neo-discriminatoria, con qualche componente paranoica, e dosi massicce di intolleranza. Se un bravo, una brava terapeuta (o un bravo, una brava qualunque cosa) viene preventivamente inquadrato “per categorie” – di genere, razziali, di censo – ben prima che per le sue qualità personali, vuol dire che nuove classificazioni sono già in atto, generando nuovi relativi pregiudizi.

Non per caso il termine woke, nato per definire il campo di quelli che si rendono conto, non sorvolano, non sono indifferenti – dunque per indicare un merito – è via via diventato oggetto di una torsione negativa o derisoria. Non indica qualcuno con una idealità, indica qualcuno con una ossessione. E il fatto che venga soprattutto “da destra” l’irrisione per l’atteggiamento woke, spesso rivendicando il punto di vista contrario (l’anti-woke potrebbe essere sintetizzato con un termine molto italiano, il classico menefreghismo), non alleggerisce di un solo grammo il peso di una questione per niente “teorica”. Che ci investe in pieno, vecchi e giovani, docenti e allievi, genitori e figli. Ci riguarda già, e ci riguarderà sempre più da vicino, nel senso che prima o poi saremo tutti chiamati a prendere posizione: a essere woke non solo nei confronti del razzismo o del sessismo, ma anche nei confronti del woke

L’aumento della diffidenza, la diminuzione della tolleranza, il rischio di organizzare anatemi e nuove censure come falso rimedio a quelli vecchi, beh, non è qualcosa che avviene dentro una disputa formale. È qualcosa che separa vite, rompe rapporti, indirizza energie e ne mortifica altre, “sgrida” chi imbocca strade giudicate non abbastanza conformi alle nuove sensibilità e – direbbe Guia Soncini – alle nuove suscettibilità.
La storia che Michela ci racconta è quella di un maestro che perde il rapporto con parte dei suoi allievi, e fiducia nelle sue capacità di insegnare (anzi, addirittura nella sua voglia di insegnare) perché il clima gli sembra intossicato dal pregiudizio e dal dogmatismo. Un dogmatismo “virtuoso”? E quanto “virtuoso” può essere, un dogmatismo?

Che io sia bianco e maschio (non amo il termine cisgender: implica una scelta che non ho fatto e non ho mai pensato di fare, diciamo dunque che mi gratifica di una decisione che non ho preso) è senza dubbio molto rilevante. Penso che sia ancora più rilevante essere nato in Europa e avere un mestiere che mi ha portato benessere e soddisfazione. Credo ancora nella condizione sociale come primo fattore di separazione tra gli umani, e pazienza se è un criterio molto novecentesco.

Ma nella gamma dei maschi occidentali di buon reddito, come di qualunque categoria o insieme di categorie, lo spettro delle possibilità – dallo stronzo assoluto al filantropo, dall’anacoreta all’attivista nel sociale, eccetera – è infinito. E se si perde il concetto che ogni persona è quella persona, e che in nessun caso, mai, si nasce macchiati dal peccato originale (ci libereremo mai da questa menomazione di origine religioso-patriarcale?), beh allora la lunga catena dei sensi di colpa non sarà mai recisa, e quello che sta succedendo nelle università americane e inglesi – nelle nostre, spero, un poco meno – è solo l’ultimo anello della medesima catena. Una catena biblica. Non so se sono fuori dai cento condizionamenti nei quali sono nato e cresciuto. Ma dalla Bibbia, sì, mi sento fuori.
Ora tiro il fiato. E aspetto, come sempre, le vostre mail.

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Ennesimo, grave colpo a Cesare Lombroso e alla sua lettura fisiognomica del carattere umano. La somiglianza tra il generale Vannacci e Stefano Rodotà è notevole, ma è difficile immaginare due persone così differenti e due visioni del mondo così inconciliabili. Vannacci sembra venuto al mondo per prendere a martellate l’opera omnia di Rodotà. Se ancora esistessero discepoli di scuola lombrosiana, si facciano avanti e spieghino.

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Qui nel Nord-Ovest il tempo è ancora bigio e freddino (12 gradi la massima). Nebbiolina scozzese e luce mesta mentre vi scrivo, di domenica mattina: “La nebbia agli irti colli piovigginando sale”, la volta scorsa è toccata a Pascoli, ora è il turno di uno stra-classico Carducci. Le sorti del mio orto – esprimevo preoccupazione, lunedì scorso, per le fragole e i pomodori – sono precarie, ma non compromesse. Le fragole ostentano una fiduciosa spavalderia, spero non sia incoscienza. I pomodori paiono terrorizzati, ma un barlume di vita ancora li abita. Le fave se ne fregano, in tanti anni mai viste vacillare, mai viste insidiate da parassiti. Le fave non sono legumi, sono bestie. Zucchine e zucche mostrano indifferenza, ma in attesa del da farsi non crescono di un solo centimetro. Sono arrivate diverse mail orticole, nel solco della affettuosa severità tipica dei lettori del Post.

Luca: Con un aprile così, che fretta c’era (maledetta primavera !?) di metter giù i pomodori? Io aspetto ancora un paio di settimane…
Maria Antonietta: Le piantine di fragole vedrà che ce la fanno! Le piante, alle quali la Natura non ha concesso la possibilità di scappare se le condizioni ambientali non sono buone, hanno ricevuto dalla stessa Natura un corredo di molecole di difesa che le protegge.
Caterina: Le fragole ce la faranno. I pomodori ed Elly, purtroppo, no.
Paola: Mi permetta un consiglio, mai farsi irretire dalle sirene del caldo fuori stagione e piantare i pomodori prima del 25 aprile. In particolare lei che abita a 500 m. Purtroppo i pomodori se prendono freddo nelle prime fasi di trapianto si bloccano. Quest’anno le lumache mi hanno mangiato buona parte dei piselli appena nati e, non so chi, ha fatto sparire i semi della fava.

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Edizione molto succinta di Zanzare Mostruose, dedicata al fatale tema dell’equivoco sui nomi. Enrico segnala, dal sito web della Stampa:
SOLDI A VESPA, RICHIAMO SUL TEMA SENSIBILE DELL’ABORTO

Giulio rincara la dose del nostro disorientamento con questo titolo della newsletter della Caritas:
SALVINI: ACCOGLIAMOLI TUTTI

Per una corretta lettura dei due titoli, è indispensabile sapere che Marinella Soldi è la presidente della Rai, e don Paolo Salvini è il vicedirettore della Caritas di Roma. Ciao!

Tag: woke