La solitudine del caftano
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La solitudine del caftano
Michele Serra
Martedì 2 maggio 2023

La solitudine del caftano

(Jordan Pix/ Getty Images)
(Jordan Pix/ Getty Images)

In una bottega di Riyad (piccola, gonfia di merci, proprio come uno immagina debba essere una bottega araba) ho comperato un magnifico caftano bianco, lungo fino alle caviglie, che non metterò mai. Considero il caftano imbattibile per eleganza e comodità: funzioni raramente coincidenti nel vestiario. Dal punto di vista tecnico il caftano – come ogni tunica lunga – abolisce il problema della cesura tra parte alta e parte bassa della figura umana. Restituisce unità al corpo, libera dalla tirannia (ottusamente binaria) cintura-bretelle, bypassa la riottosa presenza della pancia assorbendola, con un magistrale tocco di semplificazione, nell’insieme della silhouette maschile.
Perché non lo metterò mai, se non nel chiuso domestico? Beh, è ovvio. Perché ogni vestito ci rappresenta socialmente, e se girassi per la mia valle o per Milano con un caftano bianco la reazione di chi mi vede sarebbe, grosso modo, una di quelle che provo a elencare qui di seguito: 1) si è convertito all’Islam; 2) è disposto a tutto pur di farsi notare; 3) è diventato matto; 4) sta cercando di fare lo spiritoso; 5) sta girando una candid camera; 6) mai visto un arabo così pallido; 7) non sapevo che fosse già Carnevale.
Il più spiritoso mi domanderebbe: dove hai parcheggiato il cammello? Il meno spiritoso, per esempio un assessore leghista, mi direbbe: questa è una provocazione politica.

Temo che a nessuno verrebbe in mente, ed è un vero peccato, l’interpretazione corretta, nonché la più semplice, la più diretta: quel tizio porta il caftano perché gli piace portare il caftano. Nel groviglio di esperienze, giudizi, pregiudizi, abitudini, sospetti, convenzioni che guida le nostre giornate, non rimangono molti varchi per uno sguardo ingenuo sulle cose. Io stesso, incontrando in Italia un italiano con il caftano, penserei, più o meno in quell’ordine, le stesse cose che ho elencato poco sopra. Dunque non indosserò mai il mio magnifico caftano in pubblico perché condivido, con i miei simili, una radicata tendenza a restare dentro quella smisurata comfort zone sociale che è il già visto, il già sentito, il già indossato.
E però, parafrasando Cesare Zavattini, che immaginava un mondo nel quale «buongiorno vuol dire veramente buongiorno» (celebre battuta di Miracolo a Milano, tratto dal suo romanzo Totò il buono), è bello sognare un mondo nel quale se un uomo si mette il caftano vuol dire che veramente voleva mettersi il caftano.

Sugli incidenti di tipo etnico-comportamentale, la diffidenza per lo straniero, la stupidità dei nazionalismi, la mediocrità dei provincialismi, vi consiglio di dare almeno un’occhiata alle performance dello strepitoso comico americano/iraniano Maz Jobrani. Veramente bravo, anzi eccezionalmente bravo perché riesce a prendere di petto una questione delicatissima e carica di tabù (alle vecchie idiosincrasie razziste si sono aggiunti i nuovi moralismi del politicamente corretto) con spavalderia, ma nessuna grevità. Parla a Doha e a Los Angeles nello stesso identico modo, facendo ridere allo stesso modo gente in blue jeans e gente in caftano. Come disse tanti anni fa Reinhold Messner, «tutti i popoli del mondo ridono e piangono sempre per le stesse cose». Non so se Messner abbia ragione fino in fondo, ma per sperare che abbia davvero ragione è bello ascoltare Jobrani. Da autore satirico, come sogno di fine carriera, vorrei scrivere un pezzo a quattro mani con Maz Jobrani. Sugli uomini in caftano, ovviamente. Se qualcuno di voi lo incontra, a Doha o a Los Angeles, per piacere glielo dica.

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La notizia che Schlein ha una personal shopper esperta in armocromia mi ha fatto pensare che avrei preferito, dati i tempi bellici, saperla assistita da una esperta di disarmo-cromia. Battuta scema, me ne rendo conto, ma non quanto il riattizzarsi dell’eterna, decrepita polemica sui radical chic. I francesi, che perlomeno, rispetto a noi, hanno una certa autonomia culturale, fanno da soli e parlano di gauche caviar, sinistra al caviale. Come è noto esistono entrambi: i radical chic e la gauche caviar. Ma sono minoranze ideologiche e antropologiche che la destra, per sua comodità polemica, ha deciso di promuovere a Definizione Generale della sinistra nel suo complesso. Sull’argomento ho scritto molto, forse troppo. Vi rimando, nel caso ne aveste voglia, a questo mio articolo su Repubblica del 5 gennaio 2018.
Aggiungo solo che per avere un’idea di quali furono, in origine, le parti in commedia, vale la pena cercare in rete fotografie di Leonard Bernstein, grande musicista, e di Tom Wolfe, grande giornalista. Fu il secondo, parlando del primo, a coniare l’epiteto derisorio di radical chic. Guardate bene i due tipi umani, come sono vestiti e come si atteggiano. La parte del radical chic, se fossi un regista, la darei senza esitazioni a Tom Wolfe.

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L’argomento “stress”, nelle sue forme giovanili ma non solo, continua a produrre lettere in grande numero, storie personali, discussione, pensiero. Questa settimana scelgo una lettera molto decisa nell’analisi. Potremmo definirla “di destra” nel senso classico, e più nobile, del termine: ovvero molto centrata sulle responsabilità individuali, meno sull’importanza del contesto sociale. Nonostante qualche taglio è un po’ lunga, ma penso che valga la pena leggerla. La firmo con nome e cognome e vi propongo qualche modifica al nostro regolamento condominiale: se volete che le vostre lettere siano pubblicate solo con il nome, firmatele solo con il nome. Se le firmate con nome e cognome, mi considero autorizzato a pubblicarle con la firma completa. Se non desiderate la pubblicazione, specificatelo. Se vi piacerebbe essere pubblicati ma non lo siete, considerate che mi arrivano quasi cento lettere a settimana: sono costretto a scelte molto drastiche.

“Caro Boomer,
ho letto con un certo sgomento le risposte di Lorenzo e Andrea alla tua delicatissima analisi dello stress scolastico e dell’ansia giovanile, e ho apprezzato il rilievo che dai alla necessità di essere ‘insieme’ (vedi il bellissimo libro di Richard Sennett). Ma il tono evidentemente risentito (Soncini) delle risposte che hai pubblicato, da uomo decisamente molto meno a sinistra di te mi fanno pensare che manca un pezzo al tuo pur importante argomento. Il pezzo mancante credo sia l’urgenza a migliorare sé stessi e il mondo, possibilmente in quest’ordine, e mi pare una mancanza sempre più diffusa e sempre meno percepita a livello cosciente”.
“Per diverse ragioni ho a che fare con terapeuti di varie forme umane di anima (animo, psiche, interiorità, cervello, indole, carattere, inclinazione) e mi lascia sempre più perplesso il fatto che il ruolo del terapeuta o esperto che affronta un qualche tipo di disagio sembra essere quello di validare, riconoscere, affermare o accogliere la persona che sta in quella condizione di oggettiva sofferenza, senza chiederle in alcun modo di cambiare, di spostarsi dal proprio stato di dolore e pena. Mentre crescere, fino ai primi anni Sessanta almeno, era concepito in misura predominante come un adattarsi al contesto sociale, da allora si è progressivamente fatta strada la concezione simmetrica, vale a dire che crescere sia trovare le forme per adattare il contesto al soggetto che vi è immerso. Se c’è una persona affranta all’angolo della strada, nel letto a fianco al tuo o nella mailbox, la cosa più terribile che puoi fare sembrerebbe essere guardarla con sincera compassione e dirle: su bello, tirati su, vediamo come si può uscire da questa condizione di merda. Questo modo di pensare e di agire viene infatti immediatamente additato come paternalismo, violenza simbolica e, peggio di tutto, accusato di invalidare l’esistenza stessa dell’altro. Se l’altro è accasciato e fa una vita penosa, tu come cittadino, come terapeuta, come politico, devi accoglierlo, riconoscerlo, accettarlo. Guai se ti azzardi a dirgli: forse potresti cambiare un poco anche tu. Vediamo – assieme eh, ci mancherebbe – se c’è una via d’uscita, se la tua vita può prendere una direzione diversa, migliore. Questo non si può fare perché così tu lo stai ‘negando’, lo stai invalidando. Soprattutto: gli stai addossando qualche tipo di responsabilità personale per la sua condizione, cosa che è immediatamente registrata come un affronto diretto”.
“Ci faccio caso, per ragioni della mia vita di padre e di professore, e mi impressiona come questo atteggiamento sia pervasivo, e ci spieghi abbastanza precisamente il vittimismo, l’ansia, il narcisismo, lo stress, la suscettibilità. Qualunque richiesta o proposta di miglioramento è vissuta da molti come la madre di tutte le violenze, tanto più violenta e invalidante quanto più sincera, pressante e suscitata da un vero affetto per la persona sofferente.. Figurati se te la facevano passare, la tua allusione a non saper incassare i colpi: è quello che dice un bravo allenatore al suo pupillo quando lo vede all’angolo. Ma chi cazzo sei tu, che ti sei messo in testa che qualcuno voglia ancora avere un allenatore?”
“Su questo si stacca la mia visione politica dalla tua: non c’è nessun popolo in grado di salvarci con la sua saggezza, nessun popolo, per quanto giovane, in grado di aggregarsi con la sua ritrovata compattezza. Si salveranno solo le ‘ragazze romene’ (so di cosa parlo, insegno a ventenni universitari da un quarto di secolo), vale a dire quelle persone ancora disposte ad accettare la sfida della vita come proposta di miglioramento, non di compiaciuto risentimento per l’ennesimo giudizio dell’ennesimo boomer”.
Pietro Vereni

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Ancora due brevi note. La prima è sempre sul dibattito di cui sopra. Giovanni Caccia Dominioni mi segnala una recensione di Umberto Galimberti al celebre L’epoca delle passioni tristi, scritto dagli psicoanalisti Benasayag e Schmit. Uscirono (libro e recensione) dieci anni fa, nel 2013. “Penso – scrive Giovanni – che Galimberti analizzi ottimamente i motivi per cui in Occidente siamo passati da una visione di futuro come promessa a una visione di futuro come minaccia”.

Seconda e ultima cosa: giovedì 4 maggio, a Prato, ci sarà l’ultima replica del mio monologo teatrale (in compagnia di una mucca) “L’amaca di domani”, nel quale racconto il mio rapporto con le parole e con la scrittura. È stata un’esperienza lunga (tre anni di repliche in tutta Italia, con doppia interruzione per doppio lockdown), faticosa, bellissima. Ringrazio di cuore i produttori dello spettacolo (Arianna Tronco e Teatri Uniti), il regista e amico Andrea Renzi che mi ha insegnato a stare in scena senza sembrare troppo ridicolo, Luca Taiuti e Lello Becchimanzi che mi hanno accompagnato lungo mezza Italia per curare la messa in scena, condividendo con me alberghi e ristoranti a volte rinfrancanti, a volte minacciosi.
Il teatro, almeno in Italia, sta vivendo un momento d’oro. Sale quasi sempre piene, anche di giovani. Sta per debuttare nella regia teatrale, a settant’anni quasi tondi, anche Nanni Moretti. Segnalo, a proposito di teatro, questa battuta di Natalino Balasso (uno dei miei attori comici preferiti) in un’intervista a Valeria Teodonio, su Repubblica. Domanda: «Non era più redditizio fare tivù?». Risposta: «Anche fare il killer a pagamento è più redditizio. Bisogna capire se uno lo vuole fare».

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