I panni degli altri, stesi
Una newsletter di
I panni degli altri, stesi
Michele Serra
Martedì 7 maggio 2024

I panni degli altri, stesi

«Avevo omesso di dire in modo chiaro che la situazione, in Italia, non è per nulla woke. Anzi. Che non solo non è vero che da noi “non si può più dire niente”; ma è vero il contrario, si può dire tutto senza pagare alcun pegno, e anzi sicuri di avere una claque entusiasta»

Isabel Maria Garcia e Laura Rodriguez stendono vestiti a Perpignan, in Francia, dopo avere lavorato alla raccolta dell'uva, agosto 2014 (David Ramos/Getty Images)
Isabel Maria Garcia e Laura Rodriguez stendono vestiti a Perpignan, in Francia, dopo avere lavorato alla raccolta dell'uva, agosto 2014 (David Ramos/Getty Images)

“Buongiorno signor Serra,
mi chiamo Claire e per parafrasare la tua newsletter del 29 aprile, io invece sono donna e sono nera. Sono stata adottata all’età di sei anni e sono cresciuta in una cittadina di provincia. Ero l’unica bambina nera della mia scuola, con ogni probabilità sono stata la prima persona nera che i miei compagni di classe abbiano avuto modo di frequentare e non fu facile esserlo. Non so se ci sia stato un solo giorno, nei primi due anni di elementari, in cui non sia tornata a casa in lacrime, pregando i miei genitori di farmi diventare bianca (mia madre chiese al primario della clinica in cui lavorava come impiegata se questo modo esisteva; lui le sconsigliò di provarci)”.
“Penso che adesso la situazione sia cambiata, perché ci sono più bambini immigrati e figli di immigrati, ma accade sempre qualcosa che finisce per farmi chiedere quanto lo sia realmente. La scorsa settimana, ad esempio, il figlio di una mia amica nigeriana, un bambino di quattro anni, si è rifiutato d’indossare una maglietta a maniche corte, nonostante avesse caldo. Interrogato sulla questione, ha risposto che doveva coprire la sua pelle perché era brutta. La sua pelle non ha nulla che non vada, ha solo la pelle di un bambino nero”.

“Penso anch’io che l’ideologia woke rischi di creare storture e che forse lo abbia già fatto, ma tendo a minimizzare il problema quando questo tema viene affrontato in Italia. Perché la coscienza delle discriminazioni nel nostro Paese non esiste, non nel ‘Paese reale’, comunque, il Paese dove vive la maggior parte di noi. Scandalizzarsi per ciò che succede nel Regno Unito o negli USA mi pare solo un modo per dimenticare cosa succede a casa nostra, dove abbiamo politici che parlano allegramente di sostituzione etnica e altri che si sono posti come obiettivo della propria esistenza discriminare le famiglie omogenitoriali. Hai definito l’essere woke un’ossessione nei confronti delle discriminazioni. Non mi sento ossessionata, di sicuro non voglio esserlo, ma il problema è che mi viene ricordato ogni giorno che posso avere la cittadinanza, posso parlare italiano, conoscere la cultura italiana, sentire di appartenere a questo Paese, ma che non sarò mai realmente italiana. Raramente in maniera violenta; più spesso, sottilmente.
‘Scappate tutti, eh?’. Di chi parla?
‘As-salamu alaykum’. Detto da una persona non araba e che non so perché abbia pensato che io lo fossi.
‘Ma non c’era un’italiana a cui darlo, questo lavoro?’ Non serve a nulla specificare che io sono italiana e comunque non sarebbe quello il punto. Anche le persone buone, bene intenzionate, ti dicono di ‘essere favorevole al fatto che tu sia lì’, o che pensano ‘sia giusto che tu abbia un lavoro’ o che ‘non hanno nulla contro quelli come te’. In pratica, tengono a precisare che non ti vorrebbero morta e forse si aspettano anche un ringraziamento per tanta magnanimità”.

“Qualche mese fa raccontavo ad un amico (persona di sinistra e progressista) di un fatto avvenuto a Genova un anno fa. L’assessora ai servizi sociali del Comune, invitata a tenere un discorso nella sinagoga genovese in occasione della Giornata della cultura ebraica, raccontó una barzelletta: ‘Sai perché gli ebrei hanno un naso grande? Perché l’aria è gratis. Ecco, direi che questo accomuna ancora di più questa città a questa comunità’. La comunità ebraica genovese non la prese bene e il mio amico disse che non comprendeva la loro reazione. Secondo lui, era palese che l’assessora non volesse offenderli. Certo che non voleva offenderli, provai a spiegargli, ma questo non toglie che lo abbia fatto, perché fare battute sulla presunta tirchieria dei genovesi non è come farla sugli ebrei, per la banale e ovvia ragione che i genovesi non sono mai stati perseguitati e rinchiusi nei lager a causa delle dicerie su di loro”.
“Rido quando sento una persona bianca (e magari etero e cisgender e di sesso maschile) lamentarsi che non si possa più dire nulla (in Italia, si può dire tutto). Penso che la libertà di parola sia sacra, ma penso anche che sia facile non offendersi quando sai che una battuta nei tuoi confronti è solo una battuta, che non maschera pregiudizi secolari su chi sei e sul tuo posto nel mondo, pregiudizi che possono portare a torti e violenze”.

“La mia reazione alle discriminazioni affrontate da piccola fu la ricerca disperata dell’approvazione dei miei pari. Seguì l’autoconvincimento che fossimo tutti uguali per poi accettare che non lo eravamo: il fatto che gli altri mi vedano diversa, nei fatti mi rende diversa; io sono io, certo, ma appartengo anche ad una categoria di persone che sono le persone nere e temo che questo non cambierà, almeno non nell’arco della mia vita. È bellissimo quello che hai scritto: ‘ogni persona è quella persona, e in nessun caso, mai, si nasce macchiati dal peccato originale’, ma mi pare anche un privilegio poterlo pensare di sé stessi. Non c’è niente di male nell’avere un privilegio (io mi considero privilegiata sotto molti altri aspetti), ma penso che sia importante esserne consci. Mi scuso per questa lunga mail, alla fine volevo solo dire che quando e se in Italia arriverà il giorno in cui bisognerà essere woke nei confronti del woke; io mi siederò dall’altra parte del fiume perché sarò preoccupata a pensare a bambini neri che vogliono diventare bianchi”.
Claire

Buongiorno Claire. Questa settimana apro con le tue parole perché mi sembrano la via più diretta, più “semplice”, meno ideologica e più vitale, per capire che il nocciolo della questione, alla fine, è uno solo: l’enorme difficoltà di vedere le cose dal punto di vista dell’altro. O come si dice ancora più efficacemente, di mettersi nei panni dell’altro. Questa lettera è, appunto, “i tuoi panni”. Messi bene in vista in modo che io capisca che no, non sono “i miei panni”. Tu lo dici bene: “Penso che la libertà di parola sia sacra, ma penso anche che sia facile non offendersi quando sai che una battuta nei tuoi confronti è solo una battuta, che non maschera pregiudizi secolari su chi sei e sul tuo posto nel mondo”.
So bene di essere un “non offeso” perché sul mio status (maschio, bianco) non grava alcun pregiudizio – almeno, non fino a qui. E anzi, è una condizione storicamente così forte e privilegiata da essere sospettabile di avere calpestato, o più frequentemente ignorato, il punto di vista degli altri. Ma se ho sollevato qualche dubbio, qualche critica sulla radicalità e l’intransigenza della cosiddetta cultura woke, prendendo spunto dalla lettera di Michela, è perché questa condanna – non trovo altro termine – ad appartenere a una categoria, mi spaventa. E tendo a rifiutarla. Come ho scritto, dire “maschio bianco” significa qualcosa, ma non abbastanza per definire un individuo. E suppongo che dire “donna nera” indichi una gamma altrettanto varia, sia pure all’interno di un insieme (parliamo di centinaia di milioni di individui) che è sicuramente, evidentemente più svantaggiato.

Avevo omesso di dire in modo chiaro – e hai fatto bene, Claire, a ricordarmelo – che la situazione, in Italia, non è per nulla woke. Anzi. Che non solo non è vero che da noi “non si può più dire niente”; ma è vero il contrario, si può dire tutto – vedi il Vannacci, e ben prima di lui il Salvini – senza pagare alcun pegno, e anzi sicuri di avere una claque entusiasta.
Come procedere, dunque? Ovviamente non lo so. O forse almeno un pochino lo so: bisogna procedere con gli occhi bene aperti sulla faccenda “panni degli altri”. Chiedendoci a ogni passo (perché è giusto chiederselo) se le cose che diciamo e facciamo “normalmente”, le parole che pronunciamo “normalmente”, e spesso senza pensarci, tengono abbastanza conto di esperienze e sensibilità diverse dalla nostra. Fermo restando, però, che non solo non è facile, forse non è nemmeno possibile arrivare ad allargare il nostro sguardo fino a renderlo “universale”, un panottico che tutto vede, tutto comprende (e tutto sorveglia). Dovremmo dunque, passo dopo passo, rassegnarci ai nostri limiti, non farcene un vanto, ma sapere che ci sono. E dunque ascoltarci, faticare, discutere e ridiscutere, litigare e offenderci, non c’è una scorciatoia, non c’è una maniera giusta e definitiva di stabilire fino a che punto noi siamo solo “quella persona”, insofferenti a essere inquadrati in una categoria, e fino a che punto facciamo finta di non sapere a quale categoria apparteniamo, e di quali privilegi possiamo disporre senza altro merito dell’essere nati così invece di cosà.

Le mail che seguono (tante! E se posso dire: belle! E differenti! E dunque aggiungo: grazie a tutti, e mi scusino i tanti che non hanno trovato spazio) danno forma a una puntata di Ok Boomer! certamente anomala. Perché monografica, verbosa, fluviale, irrisolta. Se vi fa piacere lasciarvi travolgere dalla complicazione, dall’incertezza, dal fervido caos che ci avvolge, proseguite nella lettura. Se no, saltate pure e ci si sente la settimana prossima.

“Ciao Michele,
ho forse l’età giusta (32 anni) per aver frequentato l’università mentre la riflessione sul genere (e non più soltanto “femminista”) si faceva strada nel dibattito accademico e, poi, nel mondo reale. Alcuni dei corsi universitari che ho seguito adottavano la prospettiva degli studi di genere; ricordo di aver preso coscienza di certi fenomeni e pensato: ma come ho potuto vivere finora senza che nessuno mi facesse notare tutto ciò? Quei temi sono diventati importanti per me, e in verità lo sono tuttora, ma quello che tu e Michela avete messo in luce è una tragedia che vivo con tristezza e scoramento: il dibattito negli ultimi dieci anni si è polarizzato in modo talmente netto da aver perso qualsiasi connessione con la realtà. O l’estremismo di chi legge tutto con l’esclusiva lente del genere; o l’ottusità conservatrice e maschilista. Non c’è dialogo, ma soprattutto non c’è realtà in tutto questo, perché il mondo vero sta esattamente lì nel mezzo. Di recente ho fatto esperienza di questi pericolosi effetti di irrealtà quando ho provato a portare in classe (sono insegnante) il tema della parità di genere e sono uscita con le ossa rotte a seguito della rabbiosissima reazione di un mio alunno – 14 anni – che sosteneva che nulla di quello che io stessi dicendo fosse vero riguardo a certi fenomeni di disparità di genere in alcuni contesti. E che questi discorsi erano frutto della volontà delle donne di schiacciare gli uomini. La sua fonte, quando ho approfondito? I social. Certo, le ragioni di questa reazione sono molte e complesse, ma penso che in effetti per i più giovani questa polarizzazione trovi molto spazio su varie piattaforme che loro usano come fonti d’informazione (TikTok e compagnia bella) e le conseguenze mi preoccupano. L’estremismo si basa sull’idea che c’è un nemico da combattere e annulla l’empatia: nel mio piccolo cercherò di offrire un’alternativa, e chissà”.
Valentina P

“Mi dispiace per il terapeuta e anche per l’interprete, ma mi dispiace di più per l’allieva. Ho un aneddoto, decida lei se pertinente. Qualche anno fa ho visitato una mostra intitolata Le Donne nell’Arte. Ora, cosa pensa che fosse esposto?
Pittrici, pensavo io – magari invece lei è più scafato, e ha già capito: i pittori erano tutti uomini mentre le donne erano dipinte, osservate nelle loro funzioni di mogli e madri esemplari e naturalmente di mignottoni pure esemplari, muse e musette dell’uomo che spiega la sua idea di donna ideale, dà la sua opinione sulla condizione femminile, il solito insomma”.
“Per amor del vero c’erano anche quadri dipinti da donne: una piccola saletta con otto nature morte – essendo, la pittura di fiori e frutta, la più adatta alla delicata sensibilità femminile, o almeno così diceva il cartello di presentazione alla sala. Il rumore che sente è Georgia O’Keeffe che si rivolta nella tomba. Parliamo di circa sei anni fa, non sessanta, ma la mia estrema irritazione non era condivisa da nessuno, tranne mio marito, che però non fa testo perché è l’unica persona che conosco capace di sparare un 10/15 nomi di artiste così sull’unghia. La maggioranza non sa che le donne hanno sempre dipinto, scolpito, scritto musica, fatto scienza o filosofia: non siamo nel canone, non siamo all’altezza, non esistiamo. Questo per dirle, caro Michele, che non sono woke, sono satura, piena rasa, sfinita da mezzo secolo di uomini che cadono dal pero ogni volta che gli si chiede conto di qualcosa che hanno detto o fatto o semplicemente ‘si usa il filtro del genere’. Che nervi. Per quanto riguarda le quote rosa la signora ha torto, ma questa lettera è già troppo lunga; le consiglio la lettura di Invisibili di Caroline Criado Perez – sapeva che le femministe hanno un modo speciale di spalare la neve?”
Laura Girotti

“Continuo a riflettere e ridere, non è poco: grazie. Non saprei scrivere considerazioni complesse su ‘woke’. Molte di queste mode arrivano dagli USA, paese che esporta da sempre reazioni lontane dalla sensibilità italiana (un mio amico direbbe che continuano a colonizzarci culturalmente). A mio avviso dovremmo smetterla di scimmiottare globalmente questa mania e finirla pure di distinguere in modo manicheo ciò che è progressista e ciò che non lo è. Le distinzioni sono molto più sfumate, sarebbe il momento di scrollarsi di dosso gli schieramenti del secolo scorso e avere il coraggio di invertire la rotta. Come ha scritto giustamente il peraltro direttore Luca Sofri nasciamo tutti Vannacci, ovvero nasciamo con il nostro bagaglio biologico che ci porta in automatico a essere guardinghi e conservatori”.
“I cambiamenti culturali hanno bisogno di tempo – ahimè – è una legge della natura, non della società: possiamo ‘indottrinare’ la nostra corteccia cerebrale, ma il cervello primitivo avrà sempre l’ultima parola, in caso di emergenza.
Non mi va di piagnucolare che l’Italia è più arretrata di altri paesi: abbiamo pregi e difetti, in molti ambiti. Il peggior difetto è di parlare senza cognizione di causa, il maggior pregio di essere meglio di come ci descrivono, a cominciare – mi scuso – dai giornalisti. Dunque da vera boomer so poco sull’argomento: ritengo sarebbe bello usare il buon senso nel trattarlo. Ormai tutte le discussioni sono degli scontri: pure i ‘valori’ o i ‘diritti’ si difendono a clavate”.
Maria Rita

“La ragazza di colore che definisce noci di cocco i terapeuti di origini simili alle sue, che hanno studiato su testi scritti da persone bianche di educazione occidentale, mette il dito su un fatto reale, ovvio, naturale. Vale a dire che gli studi fatti in quella determinata materia sono stati fatti da persone privilegiate che appartengono ad una certa cultura. Per andare a trovare punti di vista diverse la ragazza dovrà probabilmente fare un percorso diverso, incontrare persone diverse, confrontarsi con punti di vista tramandati a voce, perché in culture non ricche e privilegiate come quella occidentale i testi scritti magari non esistono, ma il punto di vista eccome se esiste. E dà un impulso al suo professore, che forse ci dovrebbe riflettere e mettere da parte il suo ego. E chiedersi: per la terapia, quando ho di fronte una persona di colore che ha avuto un certo passato, che ha vissuto certe esperienze, posso veramente applicare testi di persone che quelle esperienze non le hanno fatte o/e non le hanno minimamente prese in considerazione? I vari linguaggi usati oggi per indicare il diverso dallo standard mi suonano strani, innaturali. Strani ed innaturali rispetto alla mia educazione che poggia su uno standard. Ma mettono solo il dito sulla questione – e ci dicono solo: attenzione, qui si usa uno standard, ma la realtà è molto più complessa. Tutte le e rovesciate, gli asterischi, gli LGBTQIA+ (ho guardato su Google perché la mia mente arrivava solo a LG e non si ricordava il resto), sono lì per dirci: al di fuori della tua bolla, del tuo standard, c’è una realtà più complessa”.
“La cancelliera Angela Merkel è stata una noce di cocco – di fuori una donna, dentro un politico democristiano uomo. Non ha rappresentato un punto di vista diverso dallo standard che rappresentava. Ha rappresentato la volontà del suo partito, non il suo essere donna. E Giorgia Meloni? Ma ci aspettiamo davvero qualcosa di rivoluzionario da chi ha nel suo partito Ignazio La Russa? È Ignazio La Russia la polpa, e Giorgia Meloni la scorza della noce di cocco. Rachel Carson, biologa e zoologa statunitense che lanciò il movimento ambientalista in un paese che ancora oggi ha difficoltà a comprendere l’importanza della protezione dell’ambiente, ha lottato negli anni del boom economico per un punto di vista straordinariamente diverso allo standard. Cito la prefazione di Paolo Giordano a Primavera Silenziosa, il libro più significativo e rivoluzionario della Carson: ‘Che sia stata una donna a comporre per prima quel quadro potrebbe apparire insignificante, una nota a margine addirittura offensiva. (…) Una critica così radicale di quell’Era dell’arroganza, del potere testosteronico e schiacciante della scienza e dell’industria chimica, poteva venire solo da chi, per sua costituzione, si trovava ai margini del sistema’.”
Cristina Cipriani, 54 anni

“Il grosso limite che trovo in questi movimenti, al di là della tangenzialità al grottesco che a volte traspare, è che riaffermano con forza ancora maggiore il male che vogliono combattere, ossia il concetto di identità non come ‘maschera’ operativa ma proprio come essenza direi metafisica dell’individuo. E così facendo riaffermano la potenzialità discriminatoria che è insita nell’affermazione del sé. Ad aggravare la situazione tutto poi gravita spesso attorno al concetto di sessualità come baricentro dell’identità individuale, non uscendo dall’ossessione sessuale propria delle religioni monoteiste da millenni, oppure addirittura riaffermando un concetto primitivo quanto archetipico di una responsabilità di ‘genere’ o ‘razza’. Una vera rivoluzione antropologica e una vera libertà sarebbe non girare ancora, come topolini su una ruota , nel perimetro predefinito, e alla fine rassicurante, del concetto di genere, razza, popolo, ma la negazione dei concetti stessi”.
Michele

“Come dici tu, forse sono solo anziana, e non mi ritrovo nel linguaggio di oggi. Mio padre era psichiatra, e ripeteva che l’emulazione era un gran bel problema. Temo che la confusione di questi tempi sia il volano di molti dubbi che ci assillano. Non sempre, non per tutti, ma in alcuni casi il problema del genere e la sua fluidità, stanno diventando un brand. Una volta ci mettevamo gli zoccoli ai piedi e andavamo ai cortei; i miei figli si sono fatti tatuaggi (quello anche io) e si sono decolorati i capelli; adesso i bambini (o i genitori per loro) si chiedono di che genere sono. Questa cosa è molto più pericolosa di un paio di rivoluzionari zoccoli”.
AR

“Per usare un termine non boomer l’argomento woke mi triggera in modo assurdo, in particolare la tematica gender. Mi rimbomba dentro, a livello emotivo e cerebrale. Emotivamente ho sempre odiato i soprusi, il sopraffare i più deboli mi provoca gastriti fortissime. Mi arrischio quindi a scrivere quanto segue. Il primo fremito l’ho avuto quando Michela Murgia ha definito ogni maschio come il figlio di un mafioso che gode anche senza perpetrare violenza dei vantaggi di un sistema violento. Questa era stata la mia vita? Io non ce la facevo proprio a sentirmi così. Come quando da piccolo ho provato a pregare tante volte perché così mi avevano spiegato si doveva fare. Ma dio non l’ho mai sentito. E questo patriarcato mi suona tanto come dio. Un principio onniesplicativo che fa tornare tutto. Ma a me tutto non torna. Non mi sento proprio un figlio (sano) del patriarcato. Forse anche perché mi hanno allevato donne dalla mia nascita essendo orfano di padre? Può essere. Ma ora sono un adulto, padre di una bimba, uno psicologo e un ricercatore. Ho questa forma mentis che mi spinge a ricercare le variabili che compongono un fenomeno a livello sociale e individuale. E tante cose non mi tornano. Se esiste il patriarcato come motore di un meccanismo oppressivo verso le donne e di cui tutti gli uomini si avvantaggiano, perché la maggior parte delle persone seriamente problematiche a livello sociale, mentale, economico sono uomini? Perché la maggior parte dei suicidi sono commessi da uomini? Gli uomini vanno peggio a scuola, fanno lavori più usuranti. La maggior parte delle persone in prigione sono uomini. Perché accade? La sola variabile di genere mi aiuta a spiegare davvero tutto? Lungi dal far passare i maschi come vittime, mi vedo preoccuparmi piuttosto di non farli passare tutti come carnefici”.
Giovanni

“Anche per me che di anni ne ho 35 è difficile farsi un’idea chiara su queste cose, nonostante l’interesse vivo, la conoscenza di attiviste e l’infinito materiale online tra articoli, associazioni, podcast etc.. Leggendo la tua newsletter ho sentito l’eco di un discorso fatto non molto tempo addietro: se non sbaglio parlavamo di complottisti. Di storie di relazioni compromesse o messe a dura prova da… possiamo parlare di narrazioni? idee? Come era emerso in quel frangente, era doloroso accorgersi che queste storie prendevano il sopravvento sulla quotidianità, su legami affettivi, su intere vite, silenziando tutto il resto.
Certo, in questo caso non si parla di terra piatta, vaccini per controllare la mente, ma di problemi strutturali, radicati in profondità, spesso nell’inconscio delle persone e che hanno effetti reali di oppressione e sofferenza. Però mi sembra che la reazione sia simile: ‘alle armi’. C’è un noi, buoni, animati dal sacro fuoco della giustizia e un loro, tiranni, colpevoli inappellabili, da estirpare – anche modificando la storia. Anche se questi “loro” sono nostri vicini, colleghi, amici: tutti complici”.
Stefano

“La lettera di Michela ha suscitato in me una reazione che potrei definire di estremo nervosismo. Non riesco a cogliere il punto di Michela riguardo al genere, dal momento che viene poi sottolineato che la studentessa è nera. Quale è esattamente il problema? Il genere o il colore della pelle? Michela non è d’accordo con le quote rosa, che sono state e continuano ad essere presenti per un motivo ben preciso: fino a poco tempo fa erano uno dei metodi per garantire una rappresentanza femminile in determinate posizioni. In caso contrario, le posizioni sarebbero state occupate esclusivamente da uomini. Personalmente, io sono per la tutela dei panda, se necessario. Alcune situazioni, non tutte ovviamente, possono essere meglio comprese da coloro che hanno vissuto una determinata esperienza. Solo per fare un esempio, ritengo discutibile che gli uomini decidano sul diritto all’aborto delle donne, dato che è una questione che riguarda direttamente le donne stesse. Oppure sarebbe difficile per me comprendere appieno cosa significhi subire atteggiamenti razzisti. Questo non significa che non abbia opinione a riguardo o che non possa partecipare alla conversazione: tuttavia starei bene attenta a quello che dico. In conclusione, pur riconoscendo che il wokismo possa spesso trasformarsi in una sorta di sciocchezza esagerata, se le motivazioni contro sono quelle addotte da Michela, mi viene una gran voglia di diventare woke”.
Roberta

“Sono un’abbonata del Post, del tutto contraria alla promozione delle terapie ormonali e chirurgiche sui minori con disforia di genere ad essa collegate.
La maggior parte dei giornalisti/intellettuali/chi scrive a vario titolo sui giornali, di ogni schieramento, è contrario. Guido Vitiello, Guia Soncini, Assia Neumann Dayan, Ester Viola, Fabio Vassallo, Andrea Venanzoni, per citarne solo alcuni, e solo tra quelli italiani, e NON boomer, sono contrari a questo impazzimento collettivo. Il problema maggiore del transattivismo, che di fatto è la stessa cosa di ideologia gender, è che promuove il self ID, cioè l’autocertificazione del sentirsi del sesso opposto. Se passano leggi sul self ID, un uomo, vestito da uomo, con gli attributi sessuali maschili e senza terapia ormonale, ma che dichiara di sentirsi donna, potrebbe avere in breve tempo una carta d’identità con genere di appartenenza femminile, con tutte le conseguenze di questa cosa, ad esempio la possibilità di entrare negli spogliatoi/bagni/carceri femminili. Per non parlare dello sport. Mi permetto di consigliarle l’account di J. K. Rowling su Twitter (o X). Legga cosa scrive, vada indietro nel tempo nei vari tweet, legga gli account collegati, si faccia un’idea di cosa sta succedendo in Scozia e in Canada. Si faccia un’idea della violenza dei transattivisti, delle costanti minacce a chi non la pensa come loro, che dispregiativamente chiamano terf, delle pressioni per far perdere il lavoro a chi è contrario. Sulla questione gender il Post è affetto da empatia suicida, per conto terzi tra l’altro, perché chi andrebbe a subire l’impatto distruttivo di questa ideologia sono di fatto, concretamente, le donne”.
Alessandra

“Boomer, classe ’63, ho l’impressione che molti dei conflitti filosofici odierni siano basati sulla contrapposizione di un concetto, più o meno chiaramente definito, contro il resto del mondo, ovvero contro qualsiasi altro concetto. Prendiamo l’esempio della questione ‘genere’: le generazioni successive alla nostra hanno rivendicato (con successo direi) su questo argomento, una netta separazione concettuale tra cromosomi e cultura+identità. Una volta affermata questa idea, rimane da una parte (del gap, soprattutto generazionale) chi questa separazione non l’accetta, e dall’altra un affascinante universo di possibilità da esplorare, perché prima quest’idea non era mai stata espressa così chiaramente. Accettata l’idea di una identità culturale finalmente disgiunta dai nostri cromosomi, io proporrei di andare avanti ad esplorare insieme (con buona volontà e spirito di ricerca) dove ci porta questa nuova conquista filosofica.
Il mio suggerimento è antico più di me: scomponiamo le nuove grandi idee in piccole idee progressive (possibilmente presentate con chiarezza), pensate in modo che l’accettazione di una non precluda il dissenso di quella successiva. Alla fine del confronto (se il confronto si cerca) ci si ritroverà in più gruppi, più o meno omogenei al loro interno,a cercare ognuno di migliorare il proprio modo di pensare apportando l’originalità che viene dalla diversità di ognuno di noi. Sono perfettamente cosciente della difficoltà (e della “boomeraggine”) di quanto sopra, ma credo davvero che sarebbe utile cercare un modo di andare avanti più insieme piuttosto che continuare ad opporre frontalmente idee, persone e movimenti che hanno molto in comune”.
Mauro Saveri

“La faccio breve perché ti sei infilato in un vespaio e riceverai mille mail. Anni fa frequentando ambienti che ora possiamo definire woke mi resi conto che il miglior modo per comprendere il fenomeno è interpretarlo come una forma di trascendenza terrena (un po’ lo stesso fenomeno che descrisse Weber parlando della nascita del capitalismo). Un fenomeno simil religioso nato non a caso in paesi protestanti, non a caso in una borghesia ricca e progressista ma povera di riferimenti positivi, in quanto il suo stesso pantheon la relegava all’inferno.
Ecco perché, in passate nostre corrispondenze, mi sono discostato dal coro di elogi per Michela Murgia, la più influente esponente nostrana di questo movimento. Dogmatica e disumanizzante mentre predica il contrario (non ha scritto libri negli ultimi anni, ma breviari). L’ansia di paradiso delle persone ascrivibili a questa corrente è tra l’altro non di rado dannosa per le stesse persone che intende ‘salvare’. Come fu per il cristianesimo”.
Giovanni

“Uno dei ‘privilegi’ dell’essere boomer (o giù di lì) è quello di togliersi ogni tanto qualche sassolino senza farsi troppo imbrigliare dalla prudenza, non fosse altro per evitare di avallare nuovi conformismi insopportabili quanto i vecchi.
Non starò a fare l’elenco delle nuove sensibilità che mi creano acute forme di allergia (un plauso a Michela che ha sintetizzato la questione ‘quote rosa’ per quello che è), anche se riconosco che ‘troppa sensibilità’ (inizialmente) possa essere meglio di ‘nessuna sensibilità’, se serve a fare chiarezza su qualche diritto disatteso. Poi il rischio è di deragliare appunto verso nuove forme di integralismo discriminatorio: si ha timore ad esprimere un’opinione per il timore di risultare poco ‘conforme’, si discute liberamente solo tra simili, figurarsi poi lasciarsi andare a una battuta politicamente scorretta…
Se poi il senso di colpa auto flagellante che pare aver pervaso l’occidente arriva a inneggiare in piazza ad Hamas (noto non certo per l’attenzione ai diritti umani, soprattutto di donne e minoranze) il cortocircuito mi pare totale”.
Marco

“Già quando anni fa Cruciani sbraitava ‘State esaggerando! In Italia si stabbene!’, la mia paura era di perdere il terreno conquistato sotto i piedi a causa di una minoranza (spero, senza statistiche alla mano) che è troppo radicale e sfocia nel wokismo. In sintesi, va bene tutto quanto è stato detto ma attenzione a non farci sfuggire i progressi ottenuti fino ad ora. Il megafono delle destre forza su queste argomentazioni per cercare di tornare indietro, dobbiamo fare critica costruttiva altrimenti non so come andrà a finire. Non serve dirlo, ma prendere un esempio pratico e ragionarci sopra analizzando la situazione come è stato fatto in questa newsletter è sicuramente un buon modo di fare critica costruttiva”.
Nico, 26 anni

“Quanto accaduto da Vespa (sul tema dell’aborto) dimostra che a volte i woke hanno ragione: c’è una grossa massa di maschi bianchi, etero, cisgender, abili, neurotipici, occidentali, economicamente agiati, che ragionano secondo categorie inaccettabili, oggi. E sono quelli che hanno le leve del potere in mano.
Il che non vuol dire che l’estremismo woke abbia ragione, ma che se da una parte ci sono loro è abbastanza normale che si crei ‘un’altra parte’ ugualmente incaponita. È una questione di pendolo: se le posizioni di razza e genere sono rimaste tanto a lungo bloccate da un lato, è normale che quando si sbloccano il pendolo, nella sua oscillazione, toccherà l’altro versante. Si spera, che nella sua oscillazione, trovi una sorta di equilibrio”.
“Per secoli ci è stato detto che il sesso (inteso come genere e come atto) era solo di un tipo, e radicalmente dogmatico nelle regole. Negli anni Sessanta è iniziato a liberarsi delle norme, con alcuni allegri eccessi sulla libertà. E questo porta anche a degli eccessi. Sono sani? Forse no. Sono fisiologici, credo di si. E come per gli eccessi su droghe e sesso di 50 anni fa, qualcuno resterà scottato, qualcuno ne uscirà migliorato e il mondo farà un altro passo avanti nella comprensione di quello che siamo. Ricordiamoci che, come molto giustamente ci ha descritto il dott. Costa in un suo libro, se ci sono stati degli eccessi ‘a sinistra’ è perché la strada della radicalizzazione, soprattutto negli USA, da cui è partita l’onda woke, l’hanno percorsa a gonfaloni spiegati quelli di destra. Se la destra si estremizza, per reazione anche chi non lo è tende a estremizzarsi. Chiudo con il segnalarle che, a mio umilissimo avviso, anche le categorie sociali o socioeconomiche di origine marxista del secolo scorso non sono più capaci di comprendere la realtà che ci circonda”.
Ruggero Signoretti

Tag: woke