Eravamo stupidi da prima
Una newsletter di
Eravamo stupidi da prima
Michele Serra
Martedì 6 giugno 2023

Eravamo stupidi da prima

Carlo Fruttero e Franco Lucentini (Ulf Andersen/Aurimages via ZUMA Press)
Carlo Fruttero e Franco Lucentini (Ulf Andersen/Aurimages via ZUMA Press)

Come si tratta la stupidità? Guardate che è un problema politico. Nella società di massa, nella quale con pieno diritto ognuno reclama presenza e pretende rispetto (c’è chi ha detto, ritenendo di portare a compimento il concetto di democrazia: uno vale uno) è forse il problema politico più imponente. La questione delle questioni.
Se lo stupido è – come credo, e forse come è per davvero – innocente, ovvero è portatore di un serio limite di comprensione delle cose, allora prenderlo di petto, e bollarlo di stupidità, è una forma di insensibilità e di discriminazione. Abbiamo imparato, o meglio stiamo ancora imparando, a non utilizzare paradigmi rigidi (il più rigido è la cosiddetta “normalità”) nei confronti di svariate categorie di persone. A levare lo stigma agli orientamenti sessuali meno classificabili, alla forma fisica delle persone, ai deficit fisiologici e psicologici: perché dunque non agli stupidi? Forse che è colpa loro, esserlo? E così come ammiriamo la giustezza etica del logo “nessuno tocchi Caino”, perché non escludere, per contagio, “nessuno tocchi Cretino?”.

Scrivendo, mi è spesso capitato di pormi il problema. Mi pareva, a conti fatti, che la stupidità di Tizio o di Caio fosse l’evidente motore del fatto del quale mi stavo occupando. La scrittura mi portava a concludere: si tratta di un cretino, e questo è tutto. Mi sono trattenuto sempre, o meglio quasi sempre. Un poco perché dare dello stupido a un altro presume una auto-attribuzione di intelligenza, ed è sempre sgradevole impancarsi (“non darti delle arie”, si diceva una volta. Prima di Instagram, a occhio e croce). Un poco perché lo stupido, anche se formalmente è spesso arrogante e aggressivo, fondamentalmente è un debole, anche se non lo sa. Un ipo-dotato. E una delle più faticose conseguenze della mia formazione di sinistra è che mi si accende in testa con buona frequenza una lampadina rossa, e sotto c’è questa scritta: gli ultimi vanno rispettati. Ricordati sempre che sei un privilegiato.

Questo schema ha retto, con qualche crepa, per buona parte della mia lunga storia professionale e personale. Ognuno ha i tabù che merita. Ma è stato messo seriamente in crisi da un fattore tecnologico-culturale, l’irruzione travolgente dei social nella storia umana, e da un folgorante amore letterario, quello per Fruttero & Lucentini (Carlo Fruttero, 1926-2012, Franco Lucentini, 1920-2002, torinese il primo, romano il secondo). Di qui in poi, F&L. I due, di formazione borghese e liberale, sono stati tra i più formidabili, acuti critici della massificazione, descritta in centinaia di esilaranti articoli sulla Stampa, in romanzi notevoli (i miei preferiti La donna della domenica e A che punto è la notte) e soprattutto in un pamphlet, La prevalenza del cretino, che già nel titolo indica la ragione del mio vacillare: nella società di massa il cretino, secondo F&L, non è la vittima, non è il debole, non è l’arrancante: è il vincitore, la figura egemone che plasma i tempi a sua immagine, la specie che, meglio di ogni altra, in quell’habitat ha saputo prosperare. È il dominatore ed è colui che indirizza, in quanto maggioranza, anche la politica. Nota bene: tutta la loro opera precede l’arrivo dei social. Definirla lungimirante non è dunque retorico, è “tecnico”. La loro analisi precede il celebre anatema di Umberto Eco (“i social hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli”). A cielo ancora sereno, videro oltre l’orizzonte la tempesta perfetta, e cominciarono a descriverla prima ancora che cominciasse a tuonare.

Ho sempre invidiato a F&L il sereno esercizio della ferocia letteraria. Dico letteraria perché è la scrittura stessa a costringerli, nella descrizione dell’umano, a essere implacabili, come se il ritmo interno del ragionamento non potesse esitare di fronte ad alibi o scuse o debolezze: ogni cosa scema è prima di tutto una cosa scema, ogni gesto scemo, o frase scema, idem. Poi, se volete, ne discutiamo. Ma intanto, per carità, scriviamolo.
Avendo il vantaggio di non essere di sinistra, e fortemente laici, e snob “naturali”, ovvero snob senza lo sforzo che per esserlo fanno gli snob, i due poterono aggirarsi tra i loro contemporanei senza alcuna zavorra di tipo pietistico o solidaristico. Rileggo oggi la prefazione che scrissi cinque anni fa, su richiesta di Carlotta Fruttero (grazie Carlotta, che onore!), al volume postumo Il cretino è per sempre (Oscar Mondadori) e ne traggo questo paragrafo molto politico. Perché, come vi ho detto, la questione della stupidità è, per eccellenza, una questione politica.

“F&L furono reazionari? Disprezzavano il Popolo e la Gente, categorie che di lì a poco sarebbero diventate un vero e proprio totem politico? La mia risposta è no. Furono disperatamente fedeli a un modello di razionalità, di compostezza, di stile (anche letterario, ma non solo) che nel nostro Paese sarebbe limpidamente rivoluzionario, e forse il solo vero modo rivoluzionario. Ma non ha mai potuto attecchire per la gracilità congenita di quella classe sociale eversiva, la borghesia delle città e dei Lumi, che ha cominciato a soccombere, in Italia, già ai tempi della Santa Fede e del cardinale Ruffo, e in seguito è stata inutilmente liberale, inutilmente antifascista, inutilmente colta, inutilmente laica, infine inutilmente democratica. I Due sapevano, eccome se lo sapevano, che il loro sguardo era soccombente”.

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Si diceva, la settimana scorsa: ci sarebbe un gran bisogno di socialismo – per esempio per gestire la crisi ambientale e climatica – ma non possiamo più chiamarlo socialismo, è una parola troppo vecchia, vecchia come il basco di Pietro Nenni. Mi scrive Sara, che mi (ci?) mette al corrente dell’esistenza degli Zillennials…

“Caro Michele,
mi permetto di darti del tu perché sento la tua voce nella mia testa per dieci minuti ogni settimana. Mi parli più spesso di mia mamma. Volevo dirti che a noi ventenni il socialismo piace, e ci dispiacerebbe chiamarlo con un altro nome. Volevo dirti anche che c’è una fitta sub cultura social che pullula di Prima Repubblica, busti di Lenin, baffoni di Stalin (no dai! diciamo Marx, è meglio), massime di Gramsci e foto di Berlinguer al mare. Pietro Nenni in effetti è già più di nicchia. Non mi sento in grado di parlare per una generazione intera (fra l’altro sono pure classe ’97 quindi generazione né carne né pesce: gli zillennials). Ma credo che non sia un nuovo nome, l’importante. I giovani, i famosi ventenni, hanno bisogno di spazio, non di nomi. Hanno bisogno di opportunità, non di meritocrazia, di un tetto sulla testa lontano dalla gonna della mamma, e che non debba esser pagato con la pensione della suddetta. Ma soprattutto – e vedo con piacere che in questa newsletter non passa mai inosservato questo tema – hanno bisogno di un pianeta da abitare e sul quale fare politica. E possibilmente pure un pianeta non in fiamme, inondato di fango o in formato Polaretto (compreso di involucro di plastica). Chiamiamolo pure socialismo, insomma, basta che arda, ecco”
Sara Bondi (una zillennial socialdemocratica)

Mi sono informato. Il Polaretto è un ghiacciolo. Sfugge al mio Archivio dei nomi dei gelati. Ero rimasto a Fiordifragola e Lemarancio. Coevi del juke-box. A un certo punto della vita subentrano il colesterolo e la glicemia, a interrompere bruscamente il rapporto con certe delizie da frigo. Niente come il nome dei gelati preconfezionati segna inesorabilmente le generazioni, a conferma del fatto che siamo per davvero nella Società dei Consumi.
Sempre sul socialismo, non sui ghiaccioli, mi scrive anche Riccardo:

“Caro Serra,
questa newsletter capita a fagiolo (e con questa espressione ho già dimostrato di non essere giovanissimo): sto leggendo l’ottima Vita di Antonio Gramsci di Giuseppe Fiori, e la quantità di rimandi al presente è tale (anche per la mia amata Sardegna, purtroppo) da farmi ogni volta pensare, come ha citato lei oggi: socialismo o barbarie. In un impeto eco-socialista, direi che un termine per definire noi post-comunisti/socialisti/socialdemocratici dovrebbe immediatamente rimandare all’emergenza climatica, per cui suggerisco ‘anti-estinzionisti’: come dire, o ci si rimbocca le maniche tutti insieme o è barbarie. Saluti da Londra”.
Riccardo

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Parrebbe in tema – invece non lo è – questa notizia, che dietro l’apparenza “nuova” cela un’aura funebre. È stata ancora una volta riesumata l’Unità, quotidiano che fu “organo ufficiale del Partito Comunista Italiano”. Quella era la sua funzione, oserei dire la sua natura: il giornale che i comunisti italiani scrivevano e leggevano. Nel Novecento vendeva centinaia di migliaia di copie. Era il pezzo di un mondo importante. Ci ho lavorato per quindici anni (dai venti ai trentacinque) e all’Unità, e a quel mondo, io devo, se non tutto, moltissimo.
Ma quel mondo non esiste più. Il Pci è morto ufficialmente nel febbraio del 1991, ventesimo congresso, per sua propria decisione. Esistono ancora in Italia alcune parodie minime di “partito comunista”, trascurabili e trascurate, ma quella storia – la storia dei comunisti italiani di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer – è evidentemente chiusa.
Il giornale ha continuato a vivere, faticosamente, per diversi anni, sostenuto di malavoglia da Pds, Ds, Pd. Poi nemmeno più quello, finiti i soldi, tremendamente indebolita la forza dei quotidiani “classici”. Il marchio l’Unità è stato riesumato e trafugato più volte, con editori improbabili (spesso nemmeno di sinistra). La sua ennesima ricomparsa, con un articolo di Giusva Fioravanti, non riguarda i pochi giornalisti dell’Unità ancora superstiti. Anzi, li tradisce. Mette malinconia. Per evitare le incursioni di editori tombaroli, sarebbe meglio tumulare i giornali in luoghi sconosciuti. Oppure la pira, che è definitiva.