In “Days Gone” c’è un mondo tremendo, ma divertente

Il mondo è cambiato. C’è stato un cataclisma che ha distrutto la civiltà come l’abbiamo sempre conosciuta. Adesso siamo tra i pochi superstiti disperati che cercano di sopravvivere, e i nostri peggiori nemici sono altri uomini e donne trasformati in mostri pronti a tutto.

Questo è il presupposto di una quantità sempre più nutrita di storie, raccontate nei modi e nei linguaggi più diversi. La più tipica è quella dell’apocalisse zombie, che abbiamo conosciuto prima al cinema per mano di gente come George Romero, e poi a cascata nei fumetti e nei videogiochi, dal genere più puro fino alla cultura alta. Cataclisma, ritorno al premoderno, cane mangia cane e si salvi chi può: è uno schema narrativo che funziona e che ci piace per molte ragioni. Days Gone, il gioco realizzato da SIE Bend Studio per PS4 in uscita il prossimo 26 aprile, è un’altra versione interessante di questo racconto.

La fantascienza degli anni ’60 e ’70 ha spostato l’attenzione dallo spazio esterno delle astronavi a quello interno del pianeta Terra, dove un cambiamento delle condizioni (climatiche, ma non solo) portava le persone a comportarsi in un modo nuovo e affrontare problemi inediti rispetto ai soliti (mangiare, proteggersi, curarsi). Le storie di zombi e morti viventi in genere stanno un po’ là in mezzo: da una parte c’è l’horror di vedere i tuoi vecchi amici e familiari che bussano alla finestra intenzionati a strapparti la carne di dosso a morsi; dall’altra parte c’è la novità fantascientifica della vita nuova nella terra desolata, inospitale e violenta che è diventato il pianeta.

Days Gone è stato presentato in anteprima qualche giorno fa a Milano. Ci ho giocato per qualche ora con più gusto di quello che avrei immaginato. L’atmosfera ricorda quella di The Last of Us, il gioco di Naughty Dog di cui si aspetta indicativamente per fine anno il secondo capitolo. Ma ci sono due differenze sostanziali tra The Last of Us e Days Gone. Per prima cosa Days Gone è un gioco a mondo aperto, in cui si decide se e quando proseguire con la storia principale, ci si dedica alle missioni laterali, si vaga liberamente dove si vuole. Ma soprattutto The Last of Us è un horror umanista, dove i rapporti tra i personaggi sono il cuore di tutto, mentre Days Gone è più esistenziale, più legato alla sopravvivenza del singolo e alla costruzione di un mondo nuovo.

John Garvin, che è cresciuto in Oregon dove è ambientato il gioco e dove ha sede lo studio, mi ha detto che il gioco è a suo modo ottimista. Lo ha scritto, dice, ispirandosi a La strada di Cormac McCarthy. Gli ho fatto notare che non si tratta esattamente del romanzo più ottimista di sempre.

«Se la storia si occupasse solo di cose tremende che succedono alla gente e non ci fosse speranza per il futuro, non sarebbe il tipo di storia che vorrei raccontare. In La strada c’è un mondo che è un posto tremendo dove vivere. La moglie del protagonista si uccide perché non vuole andare avanti. Quindi c’è questo poveretto con il figlio che fa fatica, mentre gli esseri umani si fanno delle cose terribili l’un l’altro. Se il libro finisse qui, non avrebbe senso leggerlo. Ma c’è di più. Il protagonista lotta alla ricerca di qualcosa di significativo che vada oltre la sopravvivenza: cerca la speranza. Non si tratta di cercare un modo per sopravvivere, ma di cercare un senso, una ragione per sopravvivere»

Il mondo di Days Gone è stato trasfigurato dall’epidemia che ha trasformato milioni di persone in “furiosi”, cioè dei mutanti che vivono di notte, praticano con convinzione il cannibalismo, si riproducono dando origine a dei cosi piccoli e terrificanti, detti larve, che è piacevole far fuori. In Days Gone non è mai il caso di far rumore e pensare di ammazzare tutti a pistolettate: si tratta di eliminarli quando è proprio necessario, ed evitarli in tutti gli altri casi. È una vita di soppiatto, sempre sul chi vive, lontana dai centri abitati e dagli assembramenti. «La cosa che ci distingue da qualsiasi altro gioco è la natura dinamica e strutturale del mondo aperto» dice ancora Garvin.

«Quando vedi le nostre creature, per esempio l’orda, 500 creature insieme, è una cosa che non ho mai visto nei videogiochi, soprattutto in un contesto a mondo aperto. Il punto non è che sono tanti, ma che hanno una relazione dinamica col mondo e interagiscono con ogni altro elemento. Hanno un posto dove stanno in letargo durante il giorno, poi escono di notte per mangiare, vanno a cercare l’acqua, tornano indietro. Questa dinamica può essere interrotta in qualsiasi momento da altre creature, dal giocatore, in modo dinamico e imprevedibile. Le cose succedono continuamente a priori, che tu sia lì a vederle o no»

Il protagonista Deacon St. John è un motociclista che sta tra Easy Rider e Sons of Anarchy, un po’ hippie che attraversa i boschi dell’Oregon, un po’ trafficone che si muove tra i vari accampamenti di resistenza di cui deve conquistare la fiducia nel corso del gioco. Days Gone è un gioco che ha dimensioni produttive medie, non è al livello di UnchartedThe Last of Us o Horizon. Ma c’è una qualità nel racconto e nelle atmosfere in cui ci si muove che lo rende più promettente di quello che potrebbe sembrare.

Matteo Bordone

Matteo Bordone è nato a Varese negli anni della crisi petrolifera. Vive a Milano con due gatti e molti ciclidi. Lavora da anni a Radio2 Rai e a volte in televisione. Scrive in alcuni posti, tra cui questo, di cultura popolare, tecnologia, videogiochi, musica e cinema.