Saggio breve sul presente dell’Italia digitale

Negli ultimi vent’anni, a testimonianza del fatto che tutto sommato le cose che si hanno da dire, che tu sia Leone Tolstoj o Federico Moccia, saranno sempre le stesse e manterranno la loro forza fino a quando non diventeranno inevitabilmente vecchie e decrepite, ho scritto un po’ dappertutto un paio di concetti piuttosto elementari.

Il primo è questo: la cultura digitale non è la sua infrastruttura. Parafrasando una celebre frase di Luca de Biase, sintetizzavo in otto parole il fatto che abbiamo aderito per troppo tempo a un’enorme confusione fra strumenti e pensiero, fra infrastruttura e competenze necessarie ad utilizzarle. Ulteriore sintesi di questa grande miopia nazionale è stato il racconto sui cosiddetti nativi digitali, categoria inesistente, ma ugualmente e per molto tempo ampiamente raccontata un po’ da tutti, di nuovi cittadini che accedono automaticamente alla complessità del sapere digitale attraverso una vicinanza fisica ripetuta con il loro device.

Ho ripetuto per anni un concetto che continua a sembrarmi molto semplice, quello che la competenza digitale è una forma contemporanea di cultura e che quindi, come tutte le culture, andrà compresa e imparata, e che mentre la impariamo perderà poi automaticamente il suo aggettivo “digitale” come la lucertola perde la coda, e l’ho fatto – devo dire – per molto tempo più o meno inascoltato. Inascoltato nei fatti concreti– non mi abbandonerò ad alcun rimbrotto senile, tranquilli – ma non nelle parole. Sono stato molto ascoltato invece: ne ho scritto in rete e sui giornali, ho trovato editori che mi hanno chiesto di scriverne libri, grandi aziende che mi hanno chiesto di lavorarci con loro, politici e governi che mi hanno domandato pareri al riguardo.

Piano piano altre persone, negli anni, prima pochissime poi sempre di più, hanno iniziato a dire le stesse cose, a condividere simili punti di vista, a scriverne e a influenzare l’opinione generale assai meglio di me e oggi, dovessi dire, mi sentirei di affermare che il concetto di partenza, il fatto che la cultura digitale sia un percorso didattico ed educativo indispensabile nella comprensione del mondo e che se non vogliamo applicarlo a noi forse sarà il caso di attrezzare al riguardo i nostri figli, sia un’idea sostanzialmente accettata. La digital literacy fa capolino un po’ dappertutto anche da noi: nei libri degli esperti, nelle parole dei giornali, dentro le aule universitarie, nei programmi della politica. Non è tutto (il divario digitale italiano resta molto ampio) ma è qualcosa.

Il secondo punto, la seconda cosa che ho sostenuto ostinatamente per molti anni, qui davvero inascoltato e a volte anche amabilmente sbeffeggiato, è molto meno intuitiva e assai più controcorrente. Diciamo che in questo caso, più che la lucertola che perde la coda e continua la sua vita tranquillamente, potrei essere paragonato ad una specie di salmone un po’ stupido e molto bolso che quando infine riesce ad organizzare il suo elegante balzo controcorrente picchia il muso su un muro di cemento che per qualche ragione se ne sta lì a mezz’aria. Il secondo punto – bando alle metafore – allora è questo: ci servono infrastrutture e terminali di rete idonei alla nostra crescita culturale digitale. Se vogliamo diventare migliori e più colti, oppure anche solo in chiave difensiva, se vorremo controllare meglio il mostro tecnologico che ci si sta squadernando di fronte, serviranno linee fisse veloci (e se possibile simmetriche) nelle case dei cittadini e device di accesso alla rete idonei alla complessità del mondo. Detto in ulteriore sintesi, visto che questo è un saggio orgogliosamente breve e per punti, la cultura digitale non si fa utilizzando come infrastruttura cognitiva una connessione 4G e uno smartphone da 6 pollici.

Scrivo – malignamente – questo secondo e ultimo punto nel momento in cui, dopo anni di stupida idolatria per il mobile first, mezza Italia è alle prese con le lezioni scolastiche dei propri figli confinati a casa dal coronavirus, rese quasi impossibili (anche) dalla mancanza di una dotazione tecnologica adeguata. Niente banda larga o fibra (ci avevano detto che bastavano i Giga generosamente offerti dagli operatori di telefonia mobile), niente linee fisse (spente a milioni negli ultimi anni e da tutti percepite come onerose ed inutili), niente computer desktop o laptop (ahahahah hai ancora un computer!), visto che una retorica non solo commerciale ma anche beceramente modernista ci sta spiegando da anni che lo schermo del nostro amato smartphone sarà più che sufficiente per fare tutto, che il nostro essere cittadini informati, consumatori attenti ed elettori assennati potrà passare unicamente da lì. Tutto molto economico e moderno. Basterà una app. Tutto estremamente pericoloso, paraculo e mediamente stupido.

Mentre i vostri figli vi stanno domandando come possono accedere ad una lezione online dal loro telefonino con le due tacche scarse del loro operatore mobile mentre stanno esaurendo i giga, voi certo potrete rispondergli che non è del tutto colpa vostra, che la politica delle reti in Italia, nel Paese occidentale con minor predisposizione alla trasformazione digitale, non ha mai saputo scegliere cosa incentivare e cosa no, e che siccome il mondo si avvia ad una sostanziale deriva casuale nella quale tutto è sempre deciso “altrove”, evidentemente l’idea di appaltare silenziosamente ad una azienda tecnologica americana o cinese il futuro culturale del Paese intero non suscita in noi troppe preoccupazioni.

Per molti anni lo stolido ragioniere dei conti pubblici italiani, l’amministratore delegato della grande telco restia a rischiare i propri denari, il politico rapidissimo nel calcolare il proprio possibile traffico di influenze nel business non ancora iniziato, se ne uscivano a questo punto con la ferale domanda:

“Mi scusi Mantellini, ma poi noi, quando avremo speso 25 miliardi per fornire ogni abitazione ed ogni azienda, ogni scuola ed ogni ufficio di questa fibra miracolosa di cui le mi dice meraviglie, noi, di tutto questo, cosa ce ne dovremmo fare?”

Domanda sensata e perfino accuratissima che mi è stata fatta molte volte e alla quale molte volte non ho saputo rispondere come avrei voluto. Domanda che ricorda un po’ la famosa e spettacolare battuta di Corrado Guzzanti sull’abborigeno.

Bene oggi la risposta corretta potrebbe essere questa: Niente. Di una infrastruttura di rete ampia e velocissima disponibile per tutti da sola non ce ne facciamo niente. Ma quell’infrastruttura è uno spazio da riempire. Una potenzialità. Un’autostrada ancora senza auto. Il luogo in cui cose che ora non immaginiamo potranno succedere.

Per esempio potrebbe improvvisamente presentarsi un virus che ci costringe tutti in casa e ci obbliga a riprogettare in cinque minuti le lezioni scolastiche. Per esempio potremmo aver bisogno di comunicare ed essere fisicamente vicini a persone lontanissime, potremmo trovarci improvvisamente nella necessità di leggere cosa dicono gli esperti e gli scienziati su un certo argomento. E tuttavia questo soddisfare bisogni in nuove maniere di per se non sarà né sufficiente né automatico. Perché la cultura digitale non è la sua infrastruttura, certo e anche perché l’infrastruttura è solo uno spazio da riempire e come tale potrà essere riempito in mille maniere differenti, molte delle quali come è ovvio del tutto deprecabili.

E insomma, prima di far scendere rapidamente la china del discorso sulla “prevalenza del cretino”, la cui contagiosità ci è nota e rispetto al quale ogni cultura imbastita e ogni infrastruttura immaginata uscirà comunque sconfitta, il motivo per cui un governo illuminato dovrebbe immaginare linee fisse e terminali ampi per i propri cittadini è perché sono uno spazio di libertà e intelligenza. E perché molti altri spazi che stiamo scegliendo lo sono assai meno.

La politica tiene alla libertà dei suoi cittadini, in genere. Del resto l’articolo 3 della Costituzione recita:

“E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Così se sapremo leggere bene fra le righe ecco che lo dicevano anche i padri della Repubblica in tempi non sospetti:

buttate i cellulari,
compratevi un laptop.
Rimanete al sicuro.
Abbiate cura di voi.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020