Il cantiere che non c’è

 

 

Penso da molto tempo, e scrivo ossessivamente da anni, che l’unica maniera che questo Paese avrebbe per cavarsela sarebbe quella di avere una politica delle reti molto forte. Come si vede ho già sprecato due verbi al condizionale.

Politica delle reti per me significa un orizzonte politico che prenda origine da due elementi molto chiari.

1 – la trasformazione digitale è un fenomeno trasversale che interessa dalle fondamenta l’economia, l’informazione, la cultura e la conoscenza in genere. Ma anche, e soprattutto, i diritti dei singoli e il potere.

2 – la trasformazione digitale domanda a gran voce un governo dei cittadini. Specie in una nazione digitalmente debolissima come la nostra lasciarsi travolgere dai nuovi ambienti digitali senza provare a orientarli significherà esserne schiavi, così come mettere a rischio il nostro residuo benessere e perfino la nostra democrazia.

Se queste due premesse sono vere, se tutto o quasi oggi transita all’incrocio fra società dei cittadini e contesti digitali, la politica non dovrebbe potersi permettere di far finta di nulla. Margini per ignorare una simile questione, specie se sei un Paese in fondo a tutte le graduatorie europee, non dovrebbero esisterne.

E invece, da oltre un decennio, nulla è considerato più esotico e marginale nei nostri palazzi della politica delle discussioni sull’Italia digitale.

Mentre qualcosa, a piccoli passi, comunque succede anche da noi (perché sarebbe impensabile l’opposto, visto che tutto nel frattempo ovunque diventa digitale) la questione centrale, la percezione della centralità della politica delle reti nel lavoro quotidiano della politica continua ad essere assente. Non parziale o non sufficientemente sviluppata: assente.

Anche in alcune iniziative di adeguamento ai contesti digitali tentate negli ultimi anni (penso al piano per la scuola digitale e all’istituzione del team per la trasformazione digitale), progetti pieni di idee condivisibili, ciò di cui simili iniziative avrebbero avuto maggiormente bisogno, vale a dire l’appoggio continuo e forte del referente politico, è in gran parte mancato. È accaduto così che magari Renzi o Gentiloni, Monti o Letta abbiano sostenuto il nascere di qualche buona idea digitale ma la loro scelta individuale di non credere fino in fondo alla centralità di simili progetti, di non supportarli a sufficienza, li ha resi opere incomplete e piccolissime. E sempre per una sola consistente ragione: perché alla politica delle reti in Italia nessun politico di vertice ha mai creduto sul serio. Avevano tutti, sempre, altre incombenti priorità.

Oggi, dopo le ultime elezioni, siamo messi anche peggio. Non solo la cultura digitale in genere è assente dai programmi dei due principali schieramenti che hanno dato vita al governo ma l’agenda politica sembra ancora meno orientata ai temi della politica delle reti, perfino rispetto al non brillantissimo passato.
A differenza di quanto immagina Luigi Di Maio, che ha tenuto per sé le deleghe alle TLC, forse lo snodo più complesso di una ipotetica “politica delle reti” nazionale, nessuno dei temi rilevanti in campo, nemmeno quello apparentemente solo economico dei riders della gig economy, potrà essere affrontato da solo, senza un pensiero complessivo e centrale sulla trasformazione digitale. Questo pensiero allo stato dei fatti non esiste, nemmeno nelle intenzioni. Nessuno, come le altre volte, sembra sentirne il bisogno.

In questa maniera la faccenda dei lavoretti, pur nella sua oggettiva rilevanza etica, diventa la solita bandierina, una delle tante, per raccontare la propria modernità politica per sommi capi. Un’investitura che ripete uno schema noto: basti pensare per esempio alle mille polemiche sulla cosiddetta webtax nei governi precedenti.

 

Stefano Quintarelli, che nella precedente legislatura ha lavorato molto su questi temi, scherzando, in risposta al mio tweet apocalittico di qualche giorno fa, ha scritto che lui non se la sente di fare quello che se ne sta al bordo della strada a guardare i cantieri. Ha ovviamente ragione, ammiro e comprendo bene il suo punto di vista. Ma è soprattutto per una ragione che non ha alcun senso starsene al bordo della strada ad osservare il cantiere: perché il cantiere, al momento, non c’è.

Massimo Mantellini

Massimo Mantellini ha un blog molto seguito dal 2002, Manteblog. Vive a Forlì. Il suo ultimo libro è "Dieci splendidi oggetti morti", Einaudi, 2020