Le anime belle e i metadati
Le anime belle del giornalismo ce lo spiegano pazientemente: sono solo metadati, cosa volete mai che siano quattro anonimi metadati? Una tempesta in un bicchier d’acqua, insomma. Il racconto di questo falso allarme da un lato contribuisce a tranquillizzare il clima e dall’altro investe di ampia benevolenza l’intero tema del controllo, prezzo da pagare giusto e necessario per la sicurezza di tutti. Il trionfo del pensiero reazionario.
Poi però se Edward Snowden è vagamente segnalato su un qualsiasi aereo del globo terracqueo i collezionisti di metadati sono capaci di bloccare gli spazi aerei di paesi lontani, a tradire una certa fretta affinché ogni cosa venga tacitata e tutto torni alla normalità. Quella normalità secondo la quale le cose metasporche devono stare sotto il metatappeto.
In Europa i metadati delle nostre telefonate sono conservati per legge dalle compagnie telefoniche per un periodo variabile. In Italia sono 24 mesi. Le ragioni di una simile cautela sono ovvie: quando le autorità indagano su un crimine possano utilizzarli retroattivamente. E questo è un compromesso buono per almeno due ragioni: perché tutela il mio interesse di acciuffare il criminale e perché affida ad un intermediario i miei dati. Ma tutta questa ragionevolezza, tutto questo bilanciamento fra esigenze di privacy dei cittadini e di sicurezza dello Stato agli amici dei metadati non basta. E allora che fanno: se li prendono tutti, in tempo reale, senza dover scomodare magistrati caso per caso. Controllano tutta la popolazione in ogni istante. A questo punto cosa scrivono le anime belle del giornalismo? Che non dovremmo preoccuparci, sono solo metadati. Ah davvero? Peccato. Davvero. Anche uno stupido capirebbe che non sono i metadati il problema ma che il problema sono le bugie, e le prevaricazioni, e le scorciatoie non autorizzate e in definitiva l’anima stessa, geneticamente illegale, del controllo. Che oggi raccoglie dati e domani li userà come riterrà. È il don’t be evil dei servizi segreti buoni, ciò che questi sconsiderati cercano di venderci.
Altro fastidioso mimetismo. Citare la raccolta di dati massiccia e autorizzata da parte di grandi aziende Internet come Google e Facebook. Nelle analisi tranquillizzanti che capita di leggere i metadati non sono tutti uguali. Noi ne scambiamo a tonnellate ogni giorno volontariamente sui social network in cambio di una misera piattaforma da utilizzare. Gli sciocchi insomma siamo noi, ce lo spiegano ogni santo giorno. Contemporaneamente NSA o i suoi corrispondenti europei ne raccolgono tonnellate dai medesimi fornitori di piattaforma e da altri pozzi per il nostro bene, per favorire la nostra sicurezza. I metadati cattivi e quelli buoni, dove sarà mai il problema? Il problema è che Facebook e Google sono oggi le nuove vittime sacrificali del controllo. Erano venuti per fare affari e sono stati a forza arruolati nella legione dei guardoni che non avrebbero voluto essere. Perché il ventre ingordo del controllore vuole tutto, raccoglie tutto, cataloga tutto: tu desideravi solo vendere i gusti dei tuoi clienti ai commerciati di pannolini, questi invece sono arrivati senza bussare e si sono presi tutto. Certo il tuo business è intatto, col commerciante di pannolini continuerai a parlarci tu e non NSA, ma la tua reputazione, beh quella, mi spiace, ma è momentaneamente in frantumi. Per colpa di Snowden, ovviamente, un giovane sconsiderato sepolto dentro un aeroporto.
Mentre un parlamentare tedesco ha chiesto indietro i propri numeri a Deutsche Telekom e Zeit ne ha fatto una applicazione graficamente interessante che aiuta a comprendere come i metadati siano ormai frammenti significativi della nostra vita e non cazzatine senza importanza, io non sono sorpreso che l’unico editoriale davvero onesto che mi sia capitato di leggere in Italia sul whistleblower Snowden lo abbia scritto Barbara Spinelli che se ne sta a Parigi, fuori dalla nube bassa dell’editorialismo nostrano.
E mentre le anime belle si agitavano su Twitter per una pagina web tolta dal Guardian all’improvviso, elencando con precisione deontologie e lezioni magistrali mai applicate su se stessi, Suzanne Moore scriveva proprio sul Guardian (e pazienza se l’autore della citazione è sbagliato) le parole definitive su questa triste vicenda che non è solo l’ufficiale presa di coscienza dello strapotere del controllore (grazie Snowden) quanto quello della resa del giornalismo al proprio ruolo di osservatore.
We now debate whether we should exchange liberty for security, but it’s too late. As John Locke said: “ As soon men decide all means are permitted to fight an evil then their good becomes indistinguishable from the evil they set up to destroy”
Senza soldi, con gli inserzionisti appollaiati sulle scrivanie delle redazioni, quello che resta ormai dell’antico prestigio del giornalismo è la contiguità col potere. La piana evidenza per cui l’analista americano che abita alle Hawaii passa i documenti che vuole far uscire ad un blogger di un quotidiano inglese che abita in Brasile è forse, assieme ad un segno di grande avventatezza, anche la definitiva constatazione di un affondamento già avvenuto. Quella della stampa in generale come soggetto centrale e disinteressato nelle battaglie per la verità.