Non è facile sapere chi sei, il sabato mattina in edicola

In questo periodo ci sono in giro due giornali che inebriano la mente, i sensi, la ciolla, tutte cose. Però in due modi completamente diversi. Uno è Orwell e l’altro è IL. A me piacciono tutti e due da morire, però penso che se mi piacciono tutti e due devo soffrire per forza di schizofrenia, quindi ogni volta che leggo uno o l’altro, cerco di risolvere il mio dissidio interiore provando a stabilire quale sia il più bello. Non lo voglio stabilire così, tanto per fare Maurizio Seymandi con il Supertelegattone: più che altro mi serve per rispondere alla domanda ma chi sei tu veramente? (dove con tu intendo solo me stesso, cioè io, cioè l’unica persona al mondo a cui abbia il coraggio di rivolgere domande marzullian-gestaltiane tipo ma chi sei tu veramente).

Orwell mi piace perché non ci capisco un cazzo. Lo compro (ormai avaxhome l’hanno chiuso) e avverto la stessa magnetica fascinazione che provavo in quarta ginnasio per i discorsi degli studenti di terzo liceo alle assemblee di istituto. Ci entravo in punta di piedi, e mi inebriavo con l’atmosfera, che da sola già dava alla testa, senza nessun bisogno di comprendere cosa mai quei tizi (con la barba già sulla faccia, la patente A già in tasca e uno stuolo di mie compagne di classe dallo sguardo lubrìco ai loro piedi) andassero dicendo dentro al microfono. Io, picciriddo quattordicenne che ancora giocava al soffione e a chi mandava la sputazza più lontano, come facevo a non essere perdutamente attratto da formule astruse come edonismo reaganiano, quando l’unica cosa che tutti i picciriddi quattordicenni quartoginnasiali del mondo desiderano è essere “grandi”, avere la barba sulla faccia, la patente A in tasca, e soprattutto le groupie dei rappresentanti d’istituto ad attenderli nel bagno della scuola?

Orwell è così, fa quest’effetto: se non sei nient’altro che un comunissimo lettore di libri/sfogliatore di giornali, leggendolo hai finalmente la possibilità di origliare cosa dicono quelli che i libri e i giornali li fanno. Quindi più che altro lo leggi allo stesso scopo per cui mangeresti il peyote o leccheresti il dorso delle rane: provare stupore iniziatico. Così giri la prima pagina e ti ritrovi catapultato dentro a un mondo totalmente diverso da quello in cui vivi, che non riesci a decifrare, e che ti sembra fantasmagorico. Perché nel mondo in cui vivi tu (dove tu stavolta non indica proprio me, ma più che altro uno tipo me, che magari ha lavorato come commesso in più di una libreria siciliana per almeno qualche anno), la gente un libro non lo compra quasi mai per leggerlo, ma quasi sempre per regalarlo a qualcun altro, che a sua volta non lo leggerà mai, e senza nemmeno scartarlo lo riciclerà come regalo per la prossima cena a cui è stato invitato e non sa cosa portare. E nel mondo in cui abitano questi tu che somigliano a me, nelle case si danno un sacco di cene e ci sono pochissimi scaffali, e su questi pochi scaffali di solito è già tanto, tantissimo, se ci sono il libro della Parodi e quello di Bruno Vespa, e se ce li trovi tutti e due insieme, senza manco più la confezione regalo, significa che quel mese il padrone di casa ha dato due cene e non è stato invitato a nessuna.

Invece nel mondo di Orwell un paio di settimane fa teneva banco una polemica tra Francesco Pacifico e Cristiano De Majo dove al posto dell’edonismo reaganiano si discuteva del romanzo commerciale non vergognosissimo come generone imperante della narrativa italiana. Il discorso verteva su questioni come: ma la lingua media che l’editoria e gli autori di quasi-successo (attenzione al quasi, perché quelli di successo non li prendiamo in considerazione proprio) impongono e si autoimpongono, non appiattirà tutto?

A questa maxi domanda, declinata poi in varie altre mini domande più analitiche, facevano seguito interrogativi giganteschi, che a me, che li leggevo tutto stonato dall’effetto peyote, suonavano come tautologie di catalaniana memoria, sul genere: come mai in Italia il romanzo sperimentale in cui non si capisce una mazza non vende quasi niente in confronto al romanzo scritto con una lingua media che ammicca al lettore? Se non sei uno che Orwell lo fa, ma uno che Orwell lo legge, ci rimani per forza amminchioluto e pensi: ma sono seri?

Siccome sono seri, può significare solo una cosa: che loro sono in terza liceo e tu fai ancora il quarto ginnasio, e queste domande non sai neanche da dove si comincia a porsele. Con un euro (se lo compri in digitale solo 89 centesimi) di contributo loro per qualche minuto ti lasciano sbirciare dalla porta dell’auletta dove si sono riuniti. Tu ti senti confuso, sei attratto ma sei timido, ti siedi in fondo, e quando poi a poco a poco pigli confidenza, e ti senti quasi incoraggiato a prendere la parola, alzi la mano. E i rappresentanti di istituto dell’Orwell finalmente ti guardano. Si sono accorti che esisto, pensi, e dentro di te dici evvai con la voce urlante di Marco Tardelli ai mondiali di Spagna.

In realtà quelli si sono accorti di te perché ti vogliono espellere dalla riunione a calci: che ci fai qua, tu, minuscolo ginnasiale? Esci subito fuori, che dobbiamo discutere di cose serie. In effetti quando tu hai alzato la mano stava parlando Daniela Raneri, ed era partita con un titolo simpatico e un argomento che prometteva battute: un cardinale (Ravasi) che twittava una citazione di Bataille. Invece le cose si erano fatte subito complicate: tu, anziché alla riunione dei rappresentanti di istituto, ti eri sentito di nuovo seduto in classe, e la mano l’avevi alzata per chiedere alla professoressa se potevi andare in bagno. La vescica ti si era gonfiata proprio mentre captavi gli indecifrabili suoni di questa frase in sanscrito:

Il concetto luminoso e oscuro di eterologia coniato dalla contro-etica batailliana si iscrive proprio nella curva di questo desiderio disgre-creatore, che dovrà aggredire da ultimo l’ente creato a immagine e somiglianza di Dio, e volgersi contro i legami e le gerarchie che esistono in interiore homine. Da qui l’allegoria dell’Acéphale , l’uomo decapitato, figura-cardine del surrealismo e nome della sua rivista-manifesto.

E niente, là te lo si leggeva in faccia che non ci stavi capendo niente. E ti sei fatto beccare come il ginnasiale che non sei altro. Adesso che sei fuori a origliare, senti che dentro hanno ripreso a discutere, e stanno parlando di Zerocalcare! E dai, lo vedi che in fondo pure loro sono ragazzi? esulta il tuo Tardelli interiore, lo vedi che anche loro si divertono come te, leggono i fumetti, si sbellicano con le battute dell’autore più spassoso che c’è, dai avanti, fatemi sentire che dite di Zerocalcare, che io lo adoro Zerocalcare, è forte Zerocalcare, vero? Fa morire dal ridere, Zerocalcare, no?

Tardelli però urla come un ossesso anche quando esulta solo interiormente, e Vanni Santoni che era là a fare il servizio d’ordine deve averlo sentito: si è accorto che tu sei ancora là fuori e ora ti sta guardando dritto negli occhi. Serio, serissimo. Per cacciarti via definitivamente, accende il megafono col volume al massimo e ti strilla nelle orecchie tutto d’un fiato:
La portata mitopoietica di quelle opere viene oggi ripresa dal fumettista romano, il quale fa dei loro eroi qualcosa di non dissimile da apparizioni divine – se per dio si intende, crowleyanamente, un perno simbolico grazie al quale provare a spiegarsi meglio la realtà – e suggerisce che non dobbiamo vergognarci se, in epoca di secolarizzazione estrema, l’iconoclastia è stata sostituita da una forma “sana” di idolatria nostalgica.

No, vabbè, ho capito: io cambio scuola e mi iscrivo all’IL, che qua non ho speranze. Quando ti avvicini all’aula di IL, la situazione è tutta un’altra. Fuori ci sono un sacco di poster colorati, locandine con una grafica così bella che proprio vuole essere guardata per forza, i titoli sembrano sirene con le minne grossissime che ti fanno yuuuu, e anziché esserci il servizio d’ordine, fuori dalla porta c’è Filippo Bologna che ti dice, dai entra, che ti offriamo un aperitivo così chic che quasi ti sembrerà popular, per esempio un Martini con l’oliva dentro, da accompagnare con una ciotola di patatine San Carlo.

Entri col naso dentro al giornale e ti pare di essere entrato dentro a una vetrina della 5th Avenue: tutto quello che avresti sempre voluto leggere in un giornale italiano non solo è lì, ma è lì per te, esposto, ammiccante, ti fa più occhiolini di quanti te ne fanno le signorine sulla Salaria, e ti dice: prendimi, comprami, mangiami, leggimi. È una specie di grande magazzino del lusso da edicola, c’è tutta una voluttà, mentre lo sfogli, che ti viene automatico associare a beni di consumo di fascia elevatissima, e sei felice, ti senti parte di una elite che veste solo abiti di sartoria su misura, beve bottiglie che costano uno stipendio e sa godersi la vita. Perché essere un intellettuale non serve a niente. Ed essere facoltosi non basta. Ci vuole anche il buon gusto. E se non c’hai tutt’e tre queste cose, è inutile che leggi libri e giornali.

Vicino all’ultimo racconto di Rick Moody e Jonathan Lethem infatti ci sono foto e redazionali su scarpe, spacchiotti elettronici di ultima generazione, macchine, profumi, essenze, sciarpe e giubbotti, tutte con quella didascalia che trovi solo sui giornali che leggono le mogli dei dentisti e dei notai: prezzo su richiesta. È tutto bello, in quel giornale, tutto. Pensi che se lo leggi diventi bello pure tu. Poi però tiri il naso fuori dal periodico e ti guardi allo specchio. C’hai addosso la tuta kalenji del Decathlon. Le calze (di spugna, e bianche) con la scritta Naik arribbattuta che hai comprato 1,5 € x 3 paia alla fiera, sono pure bucate (ma del resto le hai comprate 1,5 € x 3 paia alla fiera). Quando ti fai la barba non usi certo il pennello in radica di noce con setole di bufalo del minnesota, ma la lametta bic usa & getta (che per te, da un anno a questa parte, è diventata usa & riusa) e dopo, per evitare il tetano, ci metti due gocce di Acqua Velva, quella che sta nell’armadietto di plastica da quando è morto il nonno (e che tu continui a usare con la sua stessa parsimonia).

Che ci faccio io, che manco fumo il sigaro, con questo giornale in mano? ti sta dicendo quell’altro Tardelli, quello imbolsito e un po’malinconico che faceva l’allenatore dell’inter. Leggi le ricette internazionali che propone l’inserto speciale sui Foodies e i gastroindignados e lo fai sbocconcellando il tuo solito panino olive cunzate + pecorino primosale, che lascia una chiazza di olio giusto sul disegno neo futurista di Biesinger (e quella carta è così fragrante e porosa che a bersi la riscolatura dell’olio ci sta un attimo). Stavolta è Christian Rocca in persona a dirti se per favore ti accomodi fuori ed eviti di tornare in futuro. Non è il posto per te, questo. Non hai gusti abbastanza raffinati. Prova a sentire se quelli di Orwell ti vogliono.

Ma tu da quelli di Orwell ci sei già stato. E adesso te ne stai là, davanti all’edicola, respinto da tutti e due, e con la mazzetta degli inserti culturali sotto l’ascella, ad aspettare che i due istituti si accorgano che quel ginnasiale così diverso a cui mirano sei sempre tu. Che per farli contenti, una volta ti metti le Hogan e un’altra le Clark’s.

Mario Fillioley

Ho tradotto libri dall'inglese in italiano. Poi ho insegnato italiano agli americani. Poi non c'ho capito più niente e mi sono messo a scrivere su un blog con un nome strano: aciribiceci.com