Un’idea spericolata sulla legge elettorale

Il “giorno della marmotta”, il ritorno degli stessi temi, delle stesse discussioni, delle stesse persone perfino, che si fa prima comico, poi farsesco fino a apparire tragico, accompagna l’Italia ormai da venti anni, come in diversi al Post abbiamo avuto modo di commentare in passato.
Dalle pensioni all’Alitalia, alle correnti del PD, perfino le spiagge e le licenze dei balneari: è lunga la lista di temi sui quali sembra di assistere sempre alla stessa discussione, perché è la stessa. Ma forse la madre di tutte le discussioni della marmotta, per così dire, è sulla legge elettorale, che risale addirittura alla prima repubblica.

È anche una discussione che ci distingue nettamente da tutte le democrazie avanzate. Nessun paese occidentale ha cambiato tante leggi elettorali quanto noi, nessuno ne parla così tanto. Qualche discussione nel Regno Unito ogni tanto appare, ma molto di nicchia. Da noi invece è sempre presente, anche in campagna elettorale, come fosse una cosa che interessi qualcuno a parte gli specialisti e i politici.

La legge elettorale viene indicata, dal 1994 in poi (con l’eccezione forse delle elezioni del 2001) come una causa fondamentale della propria sconfitta elettorale e, a seguire, dei mali del paese. Ma a parlarne si era cominciato prima, arrivando col referendum del 1991 al primo cambiamento, quello che abolì le preferenze multiple e segnò l’inizio della fine della prima repubblica cosiddetta. Ammissione di colpevolezza: fui un entusiasta partecipante di quella campagna. Craxi aveva suggerito di andare al mare per far mancare il quorum, offrendo la prova provata – per la destra e la sinistra che appoggiavano quel referendum – che la fonte dei mali del paese, personificati da Craxi, si trovava proprio là, nella legge elettorale proporzionale. Da allora, la legge elettorale si è tramutata nell’alibi perfetto: ah, se solo fosse approvata la legge elettorale perfetta, quella che propongo io da vent’anni, tutto si potrebbe risolvere! E invece.

Io invece da tempo penso che l’abbandono degli alibi e il confinamento del giorno della marmotta a titolo del bel film con Bill Murray (a sua volta tratto dal vero giorno della marmotta) sarebbe davvero qualcosa che potrebbe portare il Paese a uno stadio diverso, non so se migliore, certamente meno conservatore.

Questa lunghissima premessa per un pensiero spericolato e iperminoritario che mi è venuto ieri mentre leggevo i commenti ai risultati elettorali: ma se provassimo a essere laici, e a considerare l’ipotesi che il Rosatellum sia un’ottima legge elettorale?

Non dubito che Francesco Cundari sarà in disaccordo, perché da 20 anni sostiene che il ritorno alla legge proporzionale sia la condizione per risolvere i problemi del paese, o almeno provarci. Per un breve periodo durante la passata legislatura ha condiviso la sorte di Corbyn, una persona che la pensa sempre allo stesso modo in solitudine per anni e di colpo si trova in folta compagnia. Come Corbyn tuttavia senza effetti reali, e infatti si è votato col Rosatellum. Ma, se voleste uscire dal giorno della marmotta e, se del caso, distaccarvi dal fatto che ha vinto una coalizione che non vi piace, vi farei osservare alcune cose.

Il risultato elettorale non è dipeso da un trascinante consenso popolare per Giorgia Meloni o il centrodestra. Fratelli D’Italia ha preso la più bassa percentuale di sempre per un partito che ha vinto le elezioni assicurandosi con la coalizione una maggioranza chiara alla Camera e Senato. (Luciano Capone su twitter sottolineava che il PD nel 2013 aveva preso meno, ma infatti la sua coalizione aveva la maggioranza alla Camera e non al Senato). Il centrodestra però era unito, ha fatto una campagna coerente e corale, e ha preso il 44%. Al contrario, le altre forze erano molto divise. Il terzo polo e il PD, o il PD e i 5S, pur formati da persone che hanno governato assieme in governi politici per anni, non sono riusciti a colmare le proprie differenze e si sono presentati divisi. (Un inciso: ridurre queste differenze a errori tattici e leaderismi è una lettura molto parziale, le differenze come si è visto nella mappa sociale del voto derivano da diversità di elettorati che hanno valori e interessi distinti, unire i quali è tutt’altro che semplice e richiede più che leadership molto muscolari o molto accomodanti – entrambe hanno fallito.)

Questo stato di cose, una coalizione compatta con una alta maggioranza relativa e altre forze divise ha prodotto col Rosatellum una maggioranza chiara alle camere, ma spazio alle opposizioni anche relativamente piccole come quella di Sinistra Italiana/Verdi. Inoltre, il Rosatellum ha consentito di rappresentare anche le differenze territoriali che esistono nel nostro Paese, e che dunque è importante che non siano estromesse nella logica della rappresentanza: si vede bene nel caso dei 5S che, che pur essendo solo il terzo partito nazionale, sono riusciti a conquistare un numero di collegi in territori che evidentemente rappresenta molto bene.

Tuttavia il Rosatellum, a differenza di altri sistemi elettorali maggioritari come quello inglese, non consente di raggiungere una maggioranza netta di seggi con una bassa maggioranza dei voti. Alle elezioni inglesi del 2005, Blair conquistò la maggioranza schiacciante dei seggi con il 35,2% dei voti, solo 800mila voti in più dei conservatori fermi al 32,4. In Italia nel 2018, come ricorderete, il 37,2% del centrodestra non garantì loro una maggioranza a fronte del 32,6 dei 5S e del 22,9 del centrosinistra.

In sintesi, il Rosatellum consente di conquistare una maggioranza di governo solo quando esiste uno scarto significativo tra la coalizione vincente e le altre, altrimenti la formazione del governo è rimandata, giustamente, alle trattative post-elettorali in Parlamento. Essendo una legge elettorale mista, il maggioritario, per così dire, scatta a un certo punto, abbastanza alto, dei consensi, altrimenti prevale la logica proporzionale.

Aggiungo un elemento: rispetto al tremendo e antidemocratico “Porcellum”, i collegi uninominali e le liste proporzionali corte consentono una conoscenza abbastanza chiara dei candidati che si vanno a votare e, in una logica democratica sana, dà ai partiti la responsabilità delle scelte che compiono nella loro selezione. Il fatto che tradizionalmente la qualità dei candidati conti più nel voto al centrosinistra che al centrodestra (o almeno così sembra a me) è un dato di cui i primi devono tenere conto. Infatti, l’idea che scrivendo il nome sulla scheda si diminuisca il peso dei partiti nella scelta degli eletti è una fallacia che ancora faccio fatica a capire come si sia affermata (con pochissime eccezioni), mentre il consenso che può derivare o meno dalle scelte su chi candidare è di chiarezza lapalissiana.

Questo ragionamento non convincerà mai i sostenitori del proporzionale come unica legge adatta alla cultura del nostro paese, ma in chiusura mi consente di sottolineare qualche altro elemento. Il primo è che molto del proporzionale (e delle sue qualità di rappresentanza) rimane nella legge, e questa legislatura mostrerà – nella unità o meno del centrodestra – se i particolarismi finiranno per generare comunque instabilità e vanificare l’effetto maggioritario.  Il secondo è che i vizi del proporzionale sono mitigati dalla facoltà maggioritaria di formare un governo, che oggi tocca a Meloni e domani vedremo. La rispondenza di un governo al voto popolare costruisce riserve di democrazia e fiducia anche se vengono elette persone che non apprezziamo, poi certo non basta. Infine: proprio la storica frammentazione dei partiti in Italia, crescente nel tempo dato che il più grande ha poco più di un quarto dei voti, induce a pensare che, al netto di chi pensa che si debba sempre, strutturalmente, avere un governo tecnico, un proporzionale corretto, o un maggioritario mitigato, come di fatto è il Rosatellum, possa essere un compromesso tutto sommato ragionevole per tutti.

Infine: pensate che bello non parlarne più. Questa è la legge elettorale, tutto sommato funziona, rappresenta abbastanza bene il Paese sia politicamente che geograficamente e, quando c’è una coalizione nettamente più forte, le conferisce la maggioranza per governare cinque anni. Ora parliamo d’altro: vediamo cosa fa il governo, opponiamoci e proponiamo idee belle e nuove, costruiamo nel Paese una maggioranza alternativa per le prossime elezioni; oppure, se si è al governo: applichiamo le nostre idee, mostriamo quanto sono efficaci, miglioriamo il Paese. Parliamo d’altro: non vi sembra una buona idea?

Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_