Il dilemma di Brexit

Un cinismo paragonabile a quello di inizio Novecento, quando per i capi europei la vita delle persone era solo carne da cannone: questo è andato in scena in questi giorni nel Parlamento inglese. L’altro ieri è stato nuovamente bocciato l’accordo per la Brexit negoziato tra il governo britannico e l’Unione Europea, ieri è stata votata (contro il governo) una mozione con cui i partiti si auto-assolvono per gli eventuali disastri causati da loro stessi, ossia si dicono contrari a un’uscita senza accordo, dopo aver bocciato l’accordo! Sembra una farsa, ma purtroppo si avvicina più alla tragedia.

Il dilemma Brexit è apparso chiaro fin dal primo giorno: ci sono tre condizioni da soddisfare, ma nel mondo reale esiste spazio solo per due alla volta e quindi bisogna scegliere cosa sacrificare. In altre parole, qualsiasi uscita dalla Unione Europea è una coperta troppo corta. Infatti, la soluzione che soddisfa i fautori della Brexit e non arreca danno all’economia britannica, in cui si lascia libero il Regno Unito di fare come vuole, impedendo la circolazione delle persone ma mantenendo la libertà della finanza e mercati, violerebbe i principi dell’Unione e di fatto sancirebbe la sua fine. Questa è una opzione che non è mai stata sul tavolo per evidente assenza di spirito suicida da parte dell’Unione.

Dunque rimangono due opzioni. È possibile una Brexit che soddisfa i principi dell’Unione Europea e non arreca danno alla economia britannica: una soluzione
“modello Norvegia” che però lascia frustrati i fautori della Brexit incalliti perché comprende libera circolazione delle persone e supremazia della corte di giustizia europea. Infine, esiste una soluzione che soddisfa i principi dell’Unione Europea e soddisfa i fautori della Brexit, ovvero una uscita totale senza accordi, sic et simpliciter, che avrebbe però effetti devastanti sull’economia britannica.

Due anni di discussioni surreali, ideologiche, spesso con argomenti privi di senso, sono serviti a oscurare questa elementare scelta dei britannici, tra affrontare una crisi economica violenta sperando che conduca a un risorgimento di tipo imperiale (come auspicano i Conservatori per la Brexit) o socialista (come auspicano i laburisti per la Brexit) oppure proteggere la propria popolazione ma rimanere ancorati ai modelli europei come accade agli altri paesi continentali, come la Norvegia, che non sono nell’Unione.

In questi giorni appare chiaro che il cinismo delle parti in gioco sta facendo pendere il pendolo verso la prima soluzione, con grandi sforzi per evitare allo stesso tempo di prendersi la responsabilità, addossandola primo alla Unione stessa, e poi a Theresa May, capro espiatorio ideale per tutti. In parlamento stanno infatti andando in scena due parti complementari.

Da un lato una quota ampia, forse maggioritaria, della elite aristocratica britannica che vede vicino l’obiettivo ideologico di separazione dalla Unione Europea. Già da tempo la situazione nel Regno Unito vede la povertà infantile raggiungere livelli impensabili nel resto d’Europa, nel 2018 il 7% di tutti i britannici ha ricevuto buoni per comprare da mangiare. Ma è solo l’inizio perché una crisi economica scatenata da una Brexit senza accordo graverà prima sui più fragili, poi sulla classe media: i fatti ci stanno mostrando che distruggere le vite di milioni di persone viene considerato un prezzo che si è disposti a pagare.

Ma evidentemente una parte anche più ampia delle elite economiche, anche contrarie in principio alla uscita, pensa di aver accumulato sufficienti ricchezze ed essere in grado di passare la nottata di crisi economica senza grandi conseguenze personali: solo questo può spiegare il fatto che l’opinione pubblica sembra (“sembra” non significa che lo sia davvero) tutto sommato pronta a affrontare un tale scenario catastrofico.

L’opposizione del Labour party, d’altro canto, agisce con abile tattica politica come se la sostanza di quello che rischia il Regno Unito non esistesse. In fondo, se le trattative si allungassero a dismisura, l’incapacità dei Conservatori diventerebbe palese, se si aprisse una crisi a seguito di una uscita senza accordo, sarebbe comunque colpa del governo: in entrambi i casi si prospettano succose prospettive elettorali. E poi in fondo la UE è un progetto “liberista” che Corbyn non ha mai apprezzato.

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Marco Simoni

Appassionato di economia politica, in teoria e pratica; romano di nascita e cuore, familiare col mondo anglosassone. Su Twitter è @marcosimoni_