Vorrei citare ancora Norman Zarcone, giovane uomo morto suicida a Palermo. Penso che bisogna rispettare fino in fondo la decisione di chi non ce la fa, senza cercare cause che aiutino noi a dare un senso a cose che invece non possiamo afferrare. Penso anche, perché lo vedo e l’ho letto, che la storia di Norman abbia parlato a una generazione. La sua eccellenza negli studi; i professori che gli suggeriscono di andar via non, attenzione, come scelta migliore per la sua formazione, ma come unica possibilità di trovare uno sbocco al desiderio di sé; la sensazione di chiusura e sfruttamento con cui questo paese risponde a chi lo sostiene e lo manda avanti.
(l’Unità, oggi)
La storia, parallela nel tempo, dei ricercatori dell’Università di Bologna completa questa rappresentazione. Il governo ha congelato per la seconda volta le retribuzioni dei ricercatori, che già percepiscono uno stipendio basso, ed ha anche confuso i loro percorsi di carriera. Per reazione, i ricercatori di Bologna hanno voluto smettere di fare ciò che non è dovuto: insegnare. Non si tratta di un refuso: i ricercatori, per legge, non dovrebbero insegnare. Eppure, da sempre, lo fanno. Solo che non si può fare a meno di loro, infatti il rettore dell’Università si è messo in cerca di sostituti: ecco come le istituzioni trattano chi consente loro di sopravvivere.
Per raggiungere il punto in cui si inverte la direzione della marea che da vent’anni si è diffusa nel Paese è anche utile cambiare prospettiva di quel che si racconta, soprattutto per arricchirlo. Senza le ricerche portate avanti dai dottorandi, senza le ore di lezione dei ricercatori, senza la straordinaria quantità di ore (che non possono essere ore di straordinario) lavorate dai precari in ogni settore, dal negozio sotto casa al grande quotidiano che fa le battaglie per la legalità, questo paese semplicemente collasserebbe. Nessuna di queste persone si lamenta, ma sarebbe decente almeno prenderne atto.
Per accogliere l’invito di Cesare Buquicchio che su “l’Unità” suggeriva una riflessione di verità sulle generazioni nate negli anni 70 e 80, penso che bisognerebbe riferirsi a loro come le generazioni della responsabilità e del sacrificio. Sacrifici a cui queste persone sono state chiamate senza aver mai conosciuto le vacche grasse. Persone che li hanno accettati senza piagnistei e senza cercare scorciatoie. Bisogna raccontare e osservare quanto lavoro, quanti sacrifici, e quanta fatica costi a questa generazione tenere in piedi il Paese – le sue scuole, le sue aziende, le sue istituzioni pubbliche – nonostante il vilipendio continuo a cui sono sottoposti, nonostante l’assenza di riconoscimento individuale e collettivo. Invece, è tempo che il Paese – sia nel modo in cui si racconta, che nel modo in cui si amministra – lo riconosca fino in fondo.