Ode del piano terra. Alcune esperienze milanesi.

Autunno 2015, l’Expo è ormai alle spalle e la città sembra tornare lentamente ai suoi ritmi quotidiani. E’ una di quelle belle giornate dal cielo azzurro e l’aria limpida, il clima è ancora dolce e si sentono le Alpi a breve distanza di sguardo. Immaginatevi uno di quei sabati pomeriggio in cui è bello oziare, camminando e perdendosi tra strade amate e luoghi da scoprire. L’appuntamento è con alcuni amici alla Fabbrica del Vapore per visitare una piccola mostra di cui si è sentito parlare. Da lì attraversiamo Sarpi pedonalizzata e China town per arrivare a Porta Volta. All’imbocco della strada si presentano le due testate gemelle della Fondazione Feltrinelli, vera porta alla città interna e storica; osservo la stecca lunga lungo via Crispi il ritmo dei pilastri in cemento è ossessivo, e tutto è dominato da uno potente slancio verticale che viene moderato dalla trasparenza assoluta dell’edificio. Intorno una lunga piazza-giardino che accompagna la nostra passeggiata fino a Porta Nuova, è tardo pomeriggio, l’ora perfetta per un aperitivo e ci facciamo attirare da Eataly e dai suoi labirinti del gusto. Con più spirito allegro in corpo ci muoviamo lungo Corso Como per salire lenti alla piazza Aulenti dove alla Fondazione Unicredit pare sia esposta una nuova acquisizione contemporanea molto interessante. La piazza è popolata da molta gente che si muove tra i dehors dei diversi locali e le vetrine dei negozi di moda e design che si affacciano su questo strano luogo urbano sollevato dalla quota terra abituale, ma che ci traghetta dalla città storica al nuovo Parco che si stende sino al quartiere Isola. La sensazione in questa parte di città è particolare, dopo alcuni anni ci si sta abituando, ma la predominanza di queste verticali “all’americana” ha cambiato la nostra percezione della città e anche il nostro modo di orientarci a distanza. Rimaniamo a chiaccherare tranquilli nel parco, guardandoci intorno e riconoscendo una città cambiata radicalmente. La gente ha imparato rapidamente ad usare e vivere questi luoghi, e questa nuova dorsale a est della città ha cambiato alcune delle nostre abitudini rendendo più normale la relazione con architetture contemporanee e una qualità diffusa della vita e dei servizi. Proprio per non farci mancare nulla chiudiamo il pomeriggio alla Fondazione Riccardo Catella dove sono ospitati alcuni reading di giovani autori all’interno di un festival sugli Spazi Pubblici.

Questa descrizione, forse troppo idilliaca, di un pomeriggio milanese del 2015 mi serve per raccontare la radicale trasformazione in corso di una dorsale fondamentale della città, ma, soprattutto, per analizzare un processo di trasformazione importante che sta segnando silenziosamente Milano, e che rappresenta una fondamentale inversione di tendenza rispetto a come si è sempre costruita questa metropoli negli ultimi sessant’anni.

Perché quello che è completamente mancato nella costruzione delle città italiane del secondo dopo-guerra, così come nella maggior parte delle buone pratiche portate avanti dalla miglior cultura architettonica moderna, è stata proprio la centralità del piano terra nel progetto di architettura.

Se noi guardiamo alla maggior parte delle opere costruite negli ultimi decenni, partendo da alcuni dei nostri migliori autori e arrivando alle peggiori periferie sub-urbane, quello che è troppo spesso mancata è un’attenzione culturale e politica al ruolo dello spazio pubblico e del cosiddetto, attacco a terra degli edifici.

Cosa vuol dire? Che nella maggior parte dei casi l’attenzione era focalizzata sulla progettazione e realizzazione dell’oggetto edificio, senza porre alcuna attenzione e premura a cosa sarebbe avvenuto una volta aperto il portone e usciti per strada.

Se c’è un fallimento evidente della nostra pubblica amministrazione e, in parte, della nostra architettura, è stato il tradimento dell’idea di spazio pubblico per com’era stato costruito e stratificato nella città europea per almeno 2000 anni.

E così si sono costruiti marciapiedi senza qualità, parchetti senza anima e cura, portici che affacciavano sul nulla, pseudo piazze con gradinata in cemento affacciate su piani terra vuoti di vita e di attività, localizzati nei luoghi più deprimenti dei grandi piani di urbanizzazione che hanno dato forma alle nostre periferie.

Nessuna reale cultura dello spazio collettivo e del piano terra urbano, e se, per caso, qualche progetto virtuoso cercava di portare all’interno della proposta un disegno degli spazi urbani attigui alle nuove opere, queste erano le prime cose a essere tagliate e sacrificate nelle fasi finali.

Il risultato sono città contemporanee senza un’idea di vita pubblica, luoghi costruiti per isolare le persone e non per accoglierle, offrendo un immaginario della città “moderna” molto lontano dai miti e dalle aspirazioni dei suoi Maestri.

Ma quello che, con piacere, stiamo registrando da alcuni anni è una decisa inversione di tendenza di questo processo che sta producendo alcuni risultati molto interessanti per parlare di un’altra, possibile città contemporanea.

Potremmo dire che tutto, a Milano, è cominciato con il progetto per la riconversione dell’area Pirelli-Bicocca dove, malgrado l’ossessiva mono-tematicità dei linguaggi e della mano dell’architetto (tutta la Bicocca è stata disegnata, con l’esclusione di due soli edifici, dallo studio di Vittorio Gregotti) si era attivata una significativa attenzione al progetto degli spazi urbani tra le architetture costruite. Il risultato finale appare molto tradizionale, con il suo riferimento ai boulevard e alle grandi piazze ottocentesche, ma questo frammento di città oggi appare attraversato da una qualità urbana diffusa che è comunque mancata nelle periferie a esso limitrofe, stabilendo un discrimine e un punto di non ritorno significativo.

Nei due decenni seguenti sono almeno tre i cantieri portati a completamento che hanno rafforzato questa tendenza: la nuova MilanoFiori con un masterplan di Erik van Egeraat, l’area Maciacchini con gli interventi di Alessandro Scandurra per la sede ZurigoAssicurazioni e di Studio Elementare, e l’area Portello-Fiera con il piano generale di Gino Valle e gli interventi di Charles Jencks, Land e Topotek per tutto il sistema del nuovo parco e degli spazi pubblici.

Questi tre interventi, di scala medio-grande, tutti affidati a progettisti di grande intelligenza e talento, e supportati da una committenza diversa, attenta alla qualità dell’architettura, oltre che alla resa economica della speculazione, hanno portato a risultati di grande interesse e qualità civile.

In tutti e tre i casi, la qualità compositiva e realizzativa degli oggetti architettonici è stata rafforzata da un investimento mirato su di una diffusa e controllata qualità nel disegno e nella realizzazione degli spazi pubblici, che siano strade, marciapiedi, sedute, pensiline, giardini o piccole piazze.

E queste esperienze realizzate in parallelo, anche se molto diverse tra di loro, hanno dimostrato un’inversione di tendenza in un processo frammentario di costruzione della Milano contemporanea che sta guardando a un modo differente di pensare e costruire architettura per la città.

L’insegnamento di questi interventi, e degli altri che sono in fase di completamento e che ho raccontato nella visione del 2015, corrispondono ad una crescita d’attenzione da parte di tutti gli investitori privati al ruolo e all’importanza degli spazi pubblici e che diventano una delle chiavi del successo economico e pubblico di questi interventi. In alcuni casi l’emergere di questa domanda sociale di qualità dei luoghi collettivi tra le architettura ha dato vita a vere e proprie polemiche pubbliche emerse contro la cattiva qualità di alcuni interventi programmati, come è stato per tutta la questione dell’area ex-Enel, che però ha portato a un’evoluzione importante del processo, con il rifacimento di una parte importante dei progetti residenziali e un concorso ad inviti per la progettazione degli spazi pubblici di tutta l’area.

Sono convinto che la somma di questi interventi porterà ad un innalzamento della qualità di vita della città, ma che insieme indichi uno dei laboratori politici, civili e progettuali più interessanti e stimolanti per i prossimi anni della cultura architettonica europea, e un punto di partenza irrinunciabile per ogni amministrazione che si dica veramente interessata alla qualità diffusa della nostra vita in città.

 

 

Luca Molinari

Luca Molinari, storico e critico d’architettura, vive a Milano ma da qualche anno è professore ad Aversa presso la facoltà di architettura. Cura mostre ed eventi in Italia e fuori (Triennale Milano, Biennale Venezia, FMG Spazio e molto altro). Scrivere per lui è come progettare, e l’architettura è la sua magnifica ossessione. Dirige www.ymag.it sito indipendente di architettura e design