Dylan prende e porta a casa

Bringing It All Back Home (1965)

(L’album precedente: Concert at Philharmonic Hall;
il successivo: No Direction Home).

Stavo a bordo del Mayflower, quando scorsi un po’ di TerrAH AH AH AH AH AH
Ricominciamo – Uh Uh Uh Uh 
Aspetta un momento – Ah Ah Ah Ah 
Vabbe’, Take Due.

BringingItAllBackHomeSe per descrivere Dylan potessi scegliere un solo disco, ovviamente opterei per Bringing It All Back Home, anche se non è il migliore. Se dovessi scegliere un solo minuto di tutto il disco, credo che mi terrei l’inizio di Bob Dylan’s 115 Dream, quello in cui si accorge che il resto della band non è partita con lui e si mette a ridere col produttore Tom Wilson. Buffo. Il momento più rappresentativo del disco più rappresentativo è quello in cui Dylan fa una cosa rarissima per lui: ride. Nello studio di registrazione. Ci sono compagne che non l’hanno visto ridere per anni interi. Negli studi, poi, deve aver tenuto il broncio a tutti per decenni. Ma tra 1965 e 1966 succedono cose miracolose. Tutto gli riesce bene al primo colpo, come in un sogno che si interromperà bruscamente e malgrado tutti gli sforzi BD non sognerà mai più. In quel momento magico basta aver voglia di suonare una canzone, ed essa prende forma. Le parole, gli accordi, è tutto stranamente liquido, si accomoda in qualsiasi recipiente che poi si scopre essere il migliore possibile. Un giorno Bob e Tom si dicono: e se questi pezzi li provassimo con una band? Magari non suonerebbe come la solita lagna (è il quinto disco in tre anni, dopotutto). In precedenza Wilson aveva già provato ad aggiungere alle tracce di Dylan un accompagnamento amplificato – è lo stesso metodo di lavoro con cui porterà in classifica The Sound of Silence – ma senza ottenere risultati apprezzabili. Il mattino seguente mette assieme un po’ di musicisti tra quelli che stanno circolando nei pressi dei corridoi della CBS/Columbia. Sono anni senza cellulari, se sei a casa con 37 di febbre può capitarti di non finire nel fondamentale disco di Bob Dylan. Verso le due BD arriva, saluta, spiega due cose del tipo “vorrei un blues di 16 battute in la”, e si comincia. Vada come deve andare.

È la svolta. Dylan ne ha fatte tante, ma per qualche motivo questa sembra a tutti la più importante: dalla chitarra acustica a quella elettrica. Se paragoniamo la sua carriera alla storia della cultura occidentale (lo so che è ridicolo, ma funziona), la fase acustica è l’età arcaica, con le sue reminiscenze di antiche culture orali, preistoriche; e Bringing è la transizione a una rapidissima era classica, due anni in cui Dylan definisce i canoni del rock per tutte le generazioni di lì a venire, e poi si fa invadere dai barbari. La frattura col passato arcaico è netta, ed è segnalata con quell’elemento che più rimpiango dei vinile (e delle musicassette): il Cambio di Lato. Che per quanto scomodo creava una frattura, una struttura. Il primo lato di Bringing è “elettrico” – ovvero accompagnato da una band amplificata; il secondo è un breve ritorno alla forma acustica, pur con qualche supporto dei musicisti impiegati nel primo lato (negli anni ’90 lo avremmo definito il primo unplugged, ma temo che il termine sia già stato dimenticato). Qualche artista aveva mai usato la struttura a due facce del LP in modo altrettanto drammatico? Non è una domanda retorica, è proprio che non mi vengono in mente altri esempi. Di lì a poco in Inghilterra sarà tutto un fiorire di concept album e rock opera, ma è tutto cominciato con la splendida asimmetria di Bringing: sette pezzi elettrici, quattro lunghe ballate acustiche. Schizofrenia programmata. Dylan ancora non lo sa, ma i suoi show presto prenderanno la stessa forma: un set acustico e uno elettrico, un tempo per gli applausi e un altro per i fischi. Quella che diventerà una tragedia itinerante, e lo porterà quasi all’altro mondo, comincia adesso: il 14 gennaio del 1965 alle 14:30. Comincia benissimo. Wilson trova tre chitarre, due bassi, un piano e una batteria, in tre ore e mezza incidono Love Minus Zero/No Limit, Subterranean Homesick Blues, Outlaw Blues, She Belongs to Me e Bob Dylan’s 115th Dream. Le ascoltiamo volentieri ancora oggi. È pazzesco, soprattutto se conosci Dylan, hai un po’ di esperienza nel suonare in un gruppo, e quindi lo sai che non è affatto facile suonare con uno come Dylan.

Non era neanche la prima volta che provava a registrare con un gruppo. Succede sempre così: a ogni svolta radicale scopriremo che non è affatto radicale, che a guardar bene BD se la portava dentro da sempre. Another Side sembrava una svolta intimista, ma in effetti era un ritorno a certi temi di The Freewheelin’. Anche Bringing in certi punti riprende l’attitudine sbruffoncella e disinvolta di Freewheelin’. A saper cercare probabilmente tutto Dylan è già compreso in Freewheelin’, come l’universo nel punto del big bang. Comunque, già ai tempi di quel primo (in realtà secondo) disco, John Hammond aveva provato a portare altri musicisti in studio con Dylan. Non aveva funzionato. Avevano persino inciso un singolo, poi dimenticato e nascosto. Solo Corrina Corrina era riuscita a entrare nella scaletta finale dell’album. Da lì in poi Dylan aveva preferito cristallizzare la sua identità di menestrello con chitarra, armonica e porta-armonica fatto a mano. Molto più semplice da gestire: si possono registrare dischi interi in un giorno solo. Ma appena l’abito comincerà a stargli stretto, scopriremo che il rock’n’roll elettrico se lo portava dietro sin dall’infanzia; che il sedicenne Robert Zimmerman cantava in una band al Liceo che veniva scritturata per aprire gli spettacoli pubblici a Hibbing, Minnesota. Già ai tempi aveva notato che i musicisti tendevano a mollarlo e andare a suonare per qualcun altro, e non capiva il perché: in fondo aveva una bella voce, non suonava male, perché lo mollavano?

È un indizio interessante: quando scrive Chronicles, Dylan sembra ancora non aver capito cos’è che lo rende un solista complicato. Quella voce oggettivamente difficile da gestire, quel suo stravolgere le canzoni senza avvertire nessuno, saltando ogni tanto una mezza battuta come se per basso e batteria fosse la cosa più normale al mondo – nel 1965, nello studio di una major, il professionista Dylan ancora si comporta così, e miracolosamente i musicisti gli vanno dietro. Quando qualcuno si perde – come biasimarlo? – Wilson gli abbassa il volume dello strumento in attesa che si rimetta in riga, e via che si va. Se l’ascolti in cuffia, Subterranean è piena di rammendi. Il basso dovrebbe reggere tutto l’impianto, che in teoria è semplicissimo: quattro note, roba da dilettanti. Salvo che Dylan va per i fatti suoi. In fondo era già da due dischi che aveva operato la sua rivoluzione copernicana: se ascolti The Times They Are A-Changin’Another Side e i live coevi, ti rendi conto che Dylan ha un’idea precisa del ritmo, ma lo misura con la voce. Non è il canto ad andare dietro alla chitarra, al massimo il contrario. Ora la stessa cosa dovrebbe succedere con quattro strumenti, che problema c’è? Miracolosamente quel giorno non c’è nessun problema. Un chitarrista, Bruce Langhorne, ha riferito che era tutto molto semplice e intuitivo. A Daniel Kramer, il fotografo che lo ritrarrà sulla copertina, sembrava che BD stesse componendo un puzzle: lo vedeva rimbalzare da un musicista all’altro, tentare una qualche spiegazione al piano, cambiare tempo o accordi a seconda degli stimoli. Ma a volte non contava nemmeno fino a quattro prima di partire: ai professionisti toccava raggiungerlo in corsa. La risata di 115th Dream è l’annuncio di una falsa partenza: “Ero a bordo del Mayflower”, canta: poi si guarda attorno, la ciurma lo ha lasciato solsubterraneano. Ah ah ah, vabbe’, ripartiamo. Una sciocchezza, lasciata nel missaggio forse per mantenere quell’idea di ruvido artigianato che la svolta elettrica rischiava di appannare. Ma anche qualcosa di completamente nuovo: certo, l’anno successivo i Beatles si permetteranno di cominciare Revolver con qualche colpo di tosse, e di lì in poi in sala di registrazione succederà di tutto. Ma il primo a mettersi a ridere invece di continuare una canzone è stato Bob Dylan, chi lo avrebbe mai detto.

È un periodo magico. C’è uno studente di cinema che ogni tanto lo riprende con la cinepresa, Dylan gli ha dato il permesso, mal che vada avrà qualche filmino da proiettare con gli amici quando tutta questa follia sarà finita. Dont Look Back diventerà uno dei documentari più importanti della storia del rock, e contribuirà in modo determinante a diffondere l’immagine del Dylan Elettrico, che è ancora l’icona più diffusa e riconoscibile del musicista: un ventenne ricciolone e scostante che prende in giro i giornalisti e ignora le fans che si schiacciano ai finestrini. Un giorno in albergo gli viene un’idea per i titoli di cosa, la propone al regista: vuole farsi riprendere mentre mostra dei cartelli sincronizzati con il testo di Subterranean Homesick Blues. È quasi uno scherzo; c’è anche Allen Ginsberg che si fa inquadrare: sta per nascere il videoclip moderno, l’ha inventato Dylan quel mattino. Sembra tutto così maledettamente facile.

Ho parlato di musicassette, prima? È tempo di confessarlo: di Bringing ho proprio la cassettina, che peraltro in Europa non si chiamava così, bensì Subterranean Homesick Blues. Qualcuno alla Columbia doveva aver pensato che il titolo originale potesse dispiacere ai fieri acquirenti europei. In effetti l’espressione “porta a casa”, che in italiano si adopera per dileggiare lo sconfitto, negli USA viene impiegata nello stesso ambito sportivo, ma in un modo molto diverso: si “riporta a casa” una vittoria, quando ci spetta di diritto – quando si è vincenti per tradizione e per lignaggio. E io in effetti ho pensato per anni che Dylan avesse qualche ferita da leccarsi, che si stesse portando a casa qualche rogna da risolvere, mentre Bringing It All Back Home è il titolo più sbruffone che abbia mai scelto: sto riportando a casa il rock’n’roll, perché è roba nostra. Gli inglesi lo avevano solo preso in prestito (e poi diciamolo, hanno un soul di gomma). Un’altra interpretazione: sto tornando a casa, e la mia vera casa è il rock. Il folk è stata un’impostura, un modo per farmi strada anche se non ero ancora riuscito a imparare un quattro quarti decente. Ora che ho succhiato tutto quello che la scena del Village e dei festival folk poteva offrirmi, tanti saluti baby blue. Bringing sarà il primo dico di Dylan ad arrivare in top ten. Venderà molto, molto di più dei pur celebrati album acustici. Lo comprerò persino io – ok, 20 anni più tardi. E poi continuerò a fraintendere Dylan per altri 20.

Quella risata, per esempio. Per molto tempo ho pensato che fosse l’ultimo sfregio al folk. Sul finire del lato A, Dylan intona alla chitarra un pezzo che, se togli l’accompagnamento elettrico, è identico a Motorpsycho Nightmare. Sembra tornato all’ovile, salvo che… dopo otto battute si mette a ridere, e la band riparte a srotolare il tappeto blues dei brani precedenti. Mi sembrava una cosa simbolica, studiata a tavolino: ah ah ah, il vecchio sound acustico, che ridere. Vabbe’, facciamola seriamente adesso. Take due, via. Che alla Columbia avessero inciso una risata così, perché a Dylan era sfuggita, senza nessun piano o strategia, negli anni ’80 mi sembrava impossibile. Ai miei tempi anche i colpi di tosse passavano dal sintetizzatore.

Bernacca

NON HAI BISOGNO DI LUI PER CAPIRE.

Bringing è uno dei dischi che faccio più fatica a riascoltare: tra i microsolchi sono rimasti appiccicati così tanti ricordi che non si vede più Dylan. Subterranean è forse il mio brano di Dylan preferito, salvo che ci ho messo vent’anni a capire che parlava di spacciatori di metanfetamine (Johnny’s in the basement, mixing up the medicine) – e mi tocca pure ringraziare Francesco De Gregori e Breaking Bad. Per me era soltanto un bellissimo tappeto di parole senza un senso, o con tutti i sensi del mondo. Mi piaceva il modo in cui le sillabe riempivano i versi, mi piaceva che le sillabe dessero il tempo e che persino gli strumenti dovessero adeguarsi. I’m on the pavement, thinking about the government. Nulla sapevo della paranoia di chi cuoce codeina in un seminterrato, e in ogni rumore del pavimento teme di sentire i passi degli uomini del governo. (“Il telefono comunque è controllato, Maggie dice che molti dicono che si farà la retata ai primi di maggio, ordini del dipartimento”). Per me era un enigmatico capitolo del Libro dei Proverbi: qualunque cosa dicesse parlava di me, che magari stavo davvero disteso sul pavimento a pensare al governo De Mita. Sta’ attento a quelli che arrivano con la pompa antincendio (sono gli agenti antisommossa, ci avrei messo 15 anni a capire). Non hai bisogno del colonnello Bernacca per sapere dove tira il vento. Try hard, get barred, get back, write braille, get jailed, jump bail, join the army if you fail. Non era chiaro nulla, a parte che a un certo punto dovevi scrivere in braille e se andava male c’era sempre l’esercito. Ma soprattutto: “non seguire i leader, guarda i parchimetri”. Il più grande verso di Dylan, se me lo chiedevate. Ma per molto tempo ho pensato che fosse in un qualche modo ironico, del tipo: non hai bisogno di un leader, guarda i parchimetri, se ce la fanno loro non puoi anche tu? C’è da dire che ai nostri tempi i parchimetri erano attrezzi smilzi, allineati, potevano sembrare un esercito sull’attenti. E poi nasci, ti tieni al caldo, calzoncini, prime cotte, impari a ballare, a vestirti, a farti benedire, cerchi di essere un successo, di piacere a lei, a lui, compri regali, non rubi, non scippi, e con vent’anni di scolarizzazione magari ti mettono nel turno di giorno. Il tutto in 16 battute, vi sfido a scrivere qualcosa di più pregnante nel doppio del tempo. Non vuoi essere un fallimento? Sarà meglio che mastichi gomma. La pompa non funziona perché i vandali si sono presi le maniglie. Uno dei miei grandi rimpianti è che non ho mai cominciato a capire il rap. Mi mancavano troppi riferimenti, ho perso troppi treni, ma forse ero sconfitto in partenza, Subterranean mi aveva viziato.

suckcess

La rockstar moderna nasce esibendo gli errori di ortografia – Lennon e Prince prenderanno appunti.

Una terza ipotesi per il titolo: Dylan è davvero “homesick”, ha voglia di riportare tutto a casa, ma la casa dov’è? Durante il tour inglese andrà a trovare John Lennon. Scoprirà che si era sistemato con la moglie in un bel sobborgo di Londra, una bella villa con sei camere da letto. Di ritorno negli States se ne comprerà una più grande, nei dintorni di Woodstock, dove già abitava il suo manager Albert Grossman. Quando la racconta nelle interviste sembra un capriccio, invece sarebbe stato un investimento abbastanza oculato – se solo Dylan fosse riuscito a stare fermo. Ci andrà a vivere con Sara, ex modella (Playboy, Harper’s Bazaar), poi assistente di direzione (Time-Life) che aveva divorziato dal suo primo marito, il fotografo Hans Lownds un anno prima; e Maria, la figlia treenne di Sara che Bob aveva praticamente adottato. Ma New York è a 600 km di distanza, quindi Dylan quando è fuori casa non torna a dormire. Continua a farsi vedere al Village, a frequentare altre modelle, tra cui Edie Sedgwick, l’ereditiera protagonista del corto di Andy Warhol Poor Little Rich Girl. A un certo punto, verso novembre, gli amici cominceranno a chiedergli se è vero che si è sposato. Lui negherà categoricamente. Si era sposato. Ma per molto tempo nessuno ancora saprà di Sara, a tutt’oggi non è così facile trovare sue fotografie (notevole, per una ex modella).

Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ho una donna giù a Jackson, non ve ne dirò il nome. Ha la pelle scura, ma io l’amo lo stesso (Outlaw Blues).

Arnolfini

Non doveva essere poi così banale per un cantante bianco accennare a una “brown-skin woman” in un disco del 1965. Dylan sta scrivendo una specie di libro di prose poetiche dedicato ad Aretha Franklin, Tarantula, una cosa nata per scherzo che poi dovrà terminare davvero perché nel frattempo Grossman aveva firmato il contratto con un editore. La donna languidamente semisdraiata in copertina è la moglie di Grossman, grande amica di Sara. Col suo vestito rosso attira l’attenzione, e la svia dai dettagli (il gemello sul polsino di Bob è un regalo di Joan Baez, cantante di origini messicane con la quale per la stampa ha ancora una relazione). Da qualche parte ci sono le copertine dei vecchi dischi, tra cui Freewheelin’: il che significa che da qualche parte c’è ancora l’italamericana Suze Rotolo. Intorno al cuore ci sono insomma tante donne tranne Sara, di Sara non si pronuncia il nome. Sally fa da donna-schermo stilnovista, anche se la foto di Kramer è ispirata al ritratto degli Arnolfini, il capolavoro quattrocentesco del fiammingo Van Eyck (non sarà l’unica volta, lo vedremo, che Dylan confonderà tredicesimo e quindicesimo secolo). Qualcosa di stilnovista, magari filtrato da Ezra Pound, precipita in Love Minus Zero / No Limit (l’unico brano del Lato A che non sia riconducibile neanche vagamente al blues), dove più che di una donna che finalmente gli ha dato la pace, Dylan sembra voler descrivere una forza più astratta, un Amore sincero che illumina in controluce tutta la falsità circostante: la gente porta rose, pronuncia promesse di poche ore, ma il mio Amore non ha bisogno di protestare la sua fedeltà. È sincero come il ghiaccio, come il fuoco: e non si compra con una valentina.Arnolfini dettaglio

Nei magazzini e alle stazioni la gente parla di situazioni. Leggono libri, ripetono citazioni, tracciano sul muro le loro conclusioni. Alcuni parlano del futuro: il mio Amore parla con dolcezza. Sa che non c’è successo come il fallimento, e che il fallimento non è per niente un successo (Love Minus Zero / No Limit)

She belongs to me è un’impossibile metà strada tra il blues e la canzone d’amore: chiunque sia la protagonista (“è un’artista, non si guarda indietro”), è chiaro che Dylan la possiede per modo di dire. Anche se cerchi di rubarne le visioni, finisci miseramente in ginocchio, a spiarla dalla serratura. È la Baez (porta un anello egizio, al suo cospetto sei un’antichità che cammina)? È Sara? È l’Ispirazione? Potrebbe anche essere la piccola Maria: ad Halloween regalale una trombetta, a Natale un tamburino. Tutto qui, ma assume un senso particolare nel bel mezzo di un disco che trabocca caos. I testi di Bringing mostrano una crescente insofferenza per l’assurdità metropolitana: la scena bohemienne che aveva dato un tetto e nutrito il giovane Bob di colpo appare come un cumulo di stravaganze intollerabili.

Be’ mi sveglio alla mattina, ho ranocchie nelle scarpe. Tua madre si è nascosta nella ghiacciaia, tuo padre entra travestito da Napoleone. E tu mi chiedi perché non vivo qui, devi proprio? Vado ad accarezzare la tua scimmia, mi spacca la faccia. Chiedo: ma c’è qualcuno nel camino? Tu rispondi che è Babbo Natale. Entra il lattaio con in testa una bombetta, e tu mi chiedi perché non vivo qui, sul serio? Ho una fame da lupi, chiedo un boccone, mi rifilano riso integrale, alghe e un wurstel lurido. Il mio stomaco sparisce in un buco, e tu mi chiedi perché non vivo qui? Ma sei ben strana. Tuo padre nasconde una sciabola in un bastone; tua madre venera figurine incollate alla tavola; qualsiasi cosa ho nelle tasche, me lo frega tuo zio, e tu davvero mi chiedi perché non vivo qui? C’è una rissa in cucina, c’è da mettersi a piangere. Entra il postino, anche lui prende parte al combattimento. Pure il maggiordomo deve dimostrare qualcosa. E tu mi chiedi perché non vivo qui? E tu perché non te ne vai? (On the Road Again).

Maggie’s Farm racconta la stessa storia, ma ambientata in qualche fattoria metafisica nella quale Bob non vuole più lavorare. Può essere il movimento dei diritti civili (“Vogliono tutti che io sia proprio come loro”), o la Columbia (“Loro cantano mentre io sgobbo e comincio ad annoiarmene”), ma non ha veramente più importanza: può significare qualsiasi cosa e negli stessi anni in cui compravo cassette a metà prezzo divenne importantissima per via di Margaret Thatcher. Gli Specials la rifecero ska, e persino gli U2 la suonarono a un benefit che circolava abusivamente (gli U2 erano una specie di diaframma tra noi e il mondo: se parlavano di uno sciopero dei minatori, scoprivamo che esistevano i minatori e gli scioperi. E il Quattro Aprile a Memphis, e la Domenica di Sangue e tutto lì, purtroppo non è che Bono parlasse di tantissime cose). Il fratello di Maggie fa il simpatico ma ti mette una multa ogni volta che sbatti la porta. Il padre ha murato la finestra, la Guardia Nazionale gli circonda la porta (per difenderlo o per fare irruzione?), la mamma “ha 68 anni ma dice che ne ha 24”, un altro straordinario verso che adoravo senza un motivo.

115th Dream, se non è come sembrava un addio irriverente al folk, è comunque una specie di addio alla New York caotica che Dylan sogna di aver raggiunto non più a bordo di un treno merci, ma nientemeno che sulla Mayflower, la nave dei Padri Pellegrini; salvo che la conduceva un certo capitan Arab che voleva comprarsi Manhattan con le perline, e finisce subito in galera con tutta la ciurma. Sulla nave mettono una multa per divieto di sosta. Dylan evade in qualche modo (“non chiedetemi neanche come”), cerca soldi per la cauzione, finisce in qualche guaio, un ristorante esplode schizzando grasso ovunque, Arab si attacca a una balena che in realtà è la moglie del direttore della prigione e alla fine Bob riparte augurando buona fortuna a Colombo che sta arrivando con tre caravelle. E siamo appena a metà disco.

Ma il lato acustico è veramente un’altra cosa. La città pulsante e caotica dei blues sotterranei lascia la scena a una sconsolata prateria di incubi. Dei due pezzi centrali, Gates of Eden It’s Alright, Ma, abbiamo già parlato – Dylan se li portava in giro ormai da mesi. Quanto a Mr Tambourine Man, addirittura era in scaletta la sera in cui incise Another Side (la versione si ascolta nei Witmark Demos): ma aveva saggiamente deciso di lasciar decantare il brano ancora un poco. Gli spettatori del folk festival di Newport l’avevano già sentita l’anno precedente. Bringing, registrato in gennaio, uscirà solo in marzo; in aprile i Byrds di Roger McGuinn e David Crosby ne pubblicheranno una versione arpeggiata e radiofonica che arriverà al primo posto negli USA, neanche Blowin’ in the Wind ci era riuscita. Con il “jingle-jangle” iniziale della 12 corde di McGuinn, ispirato al testo, nasceva un sound tipicamente californiano che si propagò tra i musicisti della Costa Ovest come un incendio estivo; all’inizio, in mancanza di meglio, fu definito folk-rock. Quindi Dylan era capace di inventare una melodia di successo, dopotutto – nessuno che io sappia gli ha mai contestato la paternità di Mr Tambourine. È un brano originale, completamente suo, che si regge sulla sua cantabilità, e quindi ora dobbiamo affrontare il problema: possibile che Dylan, dopo aver utilizzato per tre anni e quattro dischi progressioni armoniche e melodie altrui, a un certo punto si decida a inventare qualcosa di nuovo e gli riesca qualcosa di così notevole? È una cosa che va contro alla nostra nozione spicciola di genio. Se Dylan era un genio, perché non ha cominciato subito a scrivere brani originali come Mr Tambourine? Se non lo è mai stato, perché a un certo punto è riuscito a scrivere Mr Tambourine?

Propongo un’ipotesi intermedia. Dylan non è un grande compositore – è il primo ad averlo ammesso – ma a furia di mantenersi sulla ribalta riciclando ballate e blues, si è ritrovato nella situazione ottimale quella rara volta che gli è capitato di canticchiare qualcosa di nuovo. Le note sono soltanto sette (ok 12 in realtà), le melodie originali ormai ben poche, ma se passi la vita tra sala di registrazione e concerti, prima o poi ti può capitare di pescarne una. Soprattutto se sei uno che sbaglia spesso, e Mr Tambourine ha proprio tutta l’aria di una canzone intonata al mattino da un tizio che è partito con un accordo in Re ma per sbaglio si è ritrovato sulla scala del Sol. Le strofe presentano un’altra tipica difficoltà dylaniana: come in Hard Rain, il numero di versi è variabile. In teoria la struttura è AAAB, CCCB:

Though I know that evenings empire has returned into sand
Vanished from my hand
Left me blindly here to stand
but still not sleeping
My weariness amazes me, I’m branded on my feet
I have no one to meet
And the ancient empty street‘s
too dead for dreaming

…salvo che i versi in rima baciata possono essere tre o quattro, a seconda di quello che a Dylan preme dire.

Take me on a trip upon your magic swirling ship
My senses have been stripped
May hands can’t feel to grip
My toes too numb to step
Wait only for my boot heels to be wandering
I’m ready to go anywhere, I’m ready for to fade
Into my own parade
Cast your dancing spell my way,
I promise to go under it

Questo cosa significa? Che l’unico modo di accompagnare Dylan in Mr Tambourine Man e uscirne vivi è prestare attenzione alle parole. Con tutti gli altri cantanti puoi contare: uno, due, tre, quattro, di solito qualcosa succede al quattro o all’otto. Con Dylan non c’è verso, devi dargli retta, e il fatto che certe scale abbiano tre gradini e altre quattro contribuisce alla sensazione di nausea. Forse è davvero una canzone sulla nausea, l’agonia cantilenante di qualcuno che si sta svegliando e non vorrebbe, o viceversa.

Ma naturalmente tutti pensano che sia una canzone sulla droga. Non importa quante volte BD l’abbia negato. Dal 1965 in poi tutti cominceranno a cercare sottotesti drogati in qualsiasi canzone, e Mr Tambourine Man parla di un viaggio su uno scafo magico rotante, mentre i miei sensi si spogliano e le mani perdono presa. Ok, forse parlava di insonnia, o di insoddisfazione, o di altre cose, ma è davvero importante domandarsi quello che significava per l’autore, visto che tutti hanno capito qualcos’altro? Non è altrettanto sterile che domandarsi se la tal canzone d’amore sia ispirata a questa o quella donna? Un anno prima, mentre attraversava gli States in auto, Dylan si era entusiasmato ascoltando un pezzo dei Beatles: questa sì che è roba forte. Fa un certo effetto pensare che la stessa persona che stava componendo Chimes of Freedom si facesse impressionare da una cosa innocua come I Wanna Hold Your Hand. Ma quando di lì a pochi mesi aveva conosciuto gli autori, e aveva scoperto quanto poco fossero esperti di marijuana, era rimasto perplesso: proprio voi che in quella canzone cantavate “I get high”? In realtà Lennon e McCartney in I Wanna Hold Your Hand non cantano “I get high”: cantano “I can’t hide”: non posso nascondere l’emozione che provo quando… quando ti stringo la manina. Insomma anche Dylan è dei nostri, anche lui capisce male le parole delle canzoni, e ci trova cose che parlano più di lui che degli autori. E anche lui è pronto a sentire odore di cannabis dietro al ritornello più banale – proprio come i critici bacchettoni che credevano che With a Little Help From My Friends fosse il racconto di un’iniziazione alla droga. Mr Tambourine Man forse parlava d’altro, ma sin dal titolo suggerisce subliminalmente un riferimento letterario comune agli ascoltatori di ogni età: chiunque sia quel tamburino, è un parente del pifferaio di Hamelin. Dovunque ci porterà, non è previsto che si ritorni indietro.

Perché di questo Dylan sembra persuaso. Non si ritorna indietro. I bozzetti di confusione urbana del primo lato diventano rassicuranti, se confrontati con le immagini apocalittiche del secondo. Dopo Gates It’s Alright c’è ancora tempo per un celebre commiato, It’s All Over Now Baby Blue. Apparentemente sembra una canzone d’addio, genere in cui Dylan si è ormai specializzato: chiunque sia in cerca di frasi ispirate da usare per abbandonare il partner, nei suoi primi dischi trova tutto quello che gli serve: Don’t Think Twice, It’s Alright, It Ain’t Me Babe con quel bellissimo verso: “vattene alla tua velocità preferita”, e ora It’s All Over Now. Ci mettiamo un po’ a capire che la situazione è diversa. Non si tratta di lasciare una persona: qui bisogna lasciare la città, lasciare i propri morti. Persino tuo figlio ormai è il tuo orfano, baby blue. Chi è questa persona disgraziata che ha perso tutto, e ora i barboni che battono alla sua porta vestono i suoi abiti? Può trattarsi di qualsiasi compagno di scena folk che non ce l’ha fatta; ma anche di Bob stesso: proprio in quel momento di massima grazia, in cui tutto gli va bene in casa, in città e in sala di registrazione, Dylan è turbato dall’idea che tutto potrebbe finire di lì a poco: meglio afferrare tutto quello che si riesce, alla svelta. Prima che gli affari che ti propone un barbone tornino ad apparire ragionevoli. Like a Rolling Stone sta apparendo all’orizzonte. Uscirà in luglio.

 

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge…)

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.