L’abbondanza genera abbondanza

La scorsa settimana, in occasione della Milano Art Week, hanno aperto mostre in gallerie indipendenti e in grandi musei come il PAC, l’Hangar Bicocca e la Fondazione Prada. Durante un vernissage ho avuto una breve conversazione. Facciamo che questa conversazione sia avvenuta nell’atrio dell’Hangar Bicocca, in mezzo a una folla arrivata per partecipare all’inaugurazione. Ecco che vedo un’artista che non incontravo da tempo. Ci avviciniamo e ci salutiamo. In realtà non ci conosciamo bene. Entrambi abbiamo un bicchiere in mano. Ricordo che anni fa l’artista mi aveva raccontato di un suo lavoro. Parliamo del più e del meno. C’informiamo sui progetti dell’uno e dell’altra. Avverto dal tono di voce che l’artista non attraversa un buon momento. Di colpo la voce si fa sottile, esitante, intuisco che l’artista è sul punto di svelarmi qualcosa, ma è ancora indecisa se parlarmene o meno. Probabilmente dentro di sé si sta chiedendo se è il caso di essere schietta e sincera, oppure no, meglio far finta di niente, poi alla fine l’artista decide di aprirsi, quindi mi comunica, con un leggero tremito delle labbra, che non è un bel momento, che le cose non le vanno bene e che non sta lavorando. Il punto è quello. Non sta lavorando. Le dico che mi dispiace e che probabilmente si tratterà di un periodo di passaggio. Sono parole di circostanza, mi rendo conto, ma è pur sempre vero che nella vita di ciascuno esistono fasi e cicli.

L’artista getta uno sguardo intorno. Altre persone, a gruppi di due e di tre, discutono con un bicchiere in mano. L’artista mi guarda e domanda: «Secondo te, posso parlarne chiaramente o meglio stare zitta?». L’artista vuole sapere da me che cosa le conviene fare, che cosa è meglio per lei, visto che nella convivialità che segue all’apertura di una mostra le conversazioni vertono spesso intorno allo stato dei progetti e dei lavori di ciascuno, e perciò forse è preferibile fingere, dire che le cose vanno a gonfie vele, autopromuoversi secondo una serie di regole non dette, anche se mentire le pesa e recitare non la mette a suo agio. Le consiglio di fare ciò che la fa stare meglio, di assumere la posizione più naturale.

Per quanto mi riguarda ho sempre preferito non nascondere i miei momenti di difficoltà legati al lavoro. I motivi sono diversi: testardaggine e fedeltà a me stesso; l’abitudine a dire più o meno la verità; l’adesione a una vecchia scuola di pensiero, secondo la quale se un’artista non è riconosciuto dal mercato e non è omologato ai trend e alle parole chiave del momento, allora proprio per questa ragione è possibile che la sua sia una ricerca originale e di valore; il rifiuto di provare vergogna rispetto a un proprio momento di difficoltà; il riconoscimento di un senso e di un valore politico nella scelta consapevole di parlare e condividere le proprie difficoltà con i colleghi, specie in un contesto dove l’incertezza economica è endemica e fingere che tutto va bene è grottesco; la lettura dei libri e degli articoli di Mark Fisher. Risparmio l’elenco delle motivazioni all’artista. Non voglio annoiare e non mi sento nel luogo e nel momento adatti per trasformare un’interazione occasionale in un dialogo su verità e bugia.

Ci troviamo a un vernissage, del resto, con due calici in mano, dopo una lunga pandemia, sull’orlo di una guerra mondiale, di una crisi economica peggiore delle precedenti e perciò sento quasi il dovere di provare a divertirmi. Eppure per un istante, lì di fronte all’artista, percepisco il totale fallimento di un ambiente sociale fondato sulla negazione della realtà, sulla recita e sulla dissimulazione. L’artista si guarda di nuovo intorno. Riflette su quanto ho provato a consigliarle, infine mi risponde. Piano piano sembra aver individuato una soluzione al quesito. Dice, con lo stesso umore malinconico di prima, che in fondo le conviene senz’altro provare a mentire e a dire che le cose le vanno abbastanza bene, anzi, ottimamente. Il ragionamento è tutto sintetizzato in un’ultima frase ed è proprio in questa frase che all’improvviso riconosco l’originalità e il talento creativo dell’artista: «L’abbondanza genera abbondanza». Se saprai mentire con fantasia e dipingere la tua vita con colori accesi, il mondo ti ricambierà con entusiasmo. Il senso è questo. Da quale profondità senza tempo, mi chiedo, arrivano queste parole? L’abbondanza genera abbondanza. Di colpo mentire mi sembra un gesto più vitale che dire la verità.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).