Il marchese De Sade e la gentrification

La porta De Sade

La sera del 23 giugno 1772 il Marchese De Sade, in compagnia del servo e domestico Latour, pose piede nella capitale della cultura europea 2013, Marsiglia. Marsiglia è anche la città in cui, a cavallo del primo maggio, sono stato ospite per qualche giorno al primo piano di una palazzina del boulevard Garibaldi. La mattina e il pomeriggio successivi al suo arrivo De Sade, dovendo riscuotere una cambiale, si trovò impegnato in una serie di appuntamenti.

Probabilmente – come può accadere oggi a un account in trasferta a Dubai, a Palermo o a Madrid – il cervello del marchese venne martellato, per tutto il giorno, da uno stato di agitazione e crescente desiderio sessuale. Così De Sade, mentre si spostava da un rione all’altro di Marsiglia, incaricò Latour di apparecchiargli la serata e, fantasticando di un’orgia, gli chiese di procurargli una o più prostitute. Latour non perse tempo e si precipitò a battere le strade del vecchio quartiere della prostituzione, alle spalle del porto.

Il quartiere si chiama Noailles e in una delle sue vie si trova un bar, il Mon Bar, dove Zimmerfrei, collettivo artistico formato da Anna De Manincor, Anna Rispoli e da mio fratello Massimo, sta girando insieme a Roberto Beani, direttore della fotografia, una specie di documentario. Ecco le ragioni del mio arrivo a Marsiglia: incontrare gli Zimmerfrei e l’emozione di sempre nel guardarli al lavoro.

Proprio nei paraggi del Mon Bar, dopo una trattativa fallita con una prostituta di 19 anni, tale Jeanne Nicou, Latour incontrò Marianne Laverne, di 18 anni. Come in seguito testimoniato a processo da Marianne, Latour si presentò dichiarando che «il suo padrone era arrivato in città col proposito di divertirsi con delle ragazze e che le avrebbe preferite molto giovani». Nella stessa strada conobbe Marianette Luger di 20 anni, Marie Borelly di 23 anni e Rosette Coste di 20. Marianette, Marie, Marianne e Rosette lavoravano a casa, ospitando i marinai nel proprio letto, oppure in outcall salendo a bordo delle navi ancorate al porto.

De Sade arrivò all’incontro, organizzato al civico 15 di Rue d’Aubagne, in redingote grigia, pantaloni di seta color arancio, indossando un cappello piumato, mostrando una spada inguainata appesa lungo un fianco e un coltello da caccia agganciato alla cintura. Durante l’orgia, oltre ad aver avuto rapporti col servo Latour, si accoppiò con le quattro ragazze, le sodomizzò, le colpì forte sia con il gatto a nove code che con un manico di scopa (forse usato anche nella penetrazione) con i quali, in seguito, le implorò di venire a sua volta picchiato. Sulla cornice intorno al camino incise con il coltello da caccia il numero dei colpi ricevuti in più sessioni di frusta e bastone: 215, 179, 225, 240.

Il giorno dopo De Sade e Latour vennero denunciati in commissariato. Secondo l’accusa mossa dalle quattro prostitute, che nelle ore successive ai fatti avevano più volte vomitato e manifestato malessere, il marchese le aveva avvelenate con dei bonbon al cantaride, un afrodisiaco, detto anche spanish fly, ottenuto dalla tritatura di una piccola cicala verde. I giornali diedero ampia notizia dello scandalo: «le dame arse da furore uterino e gli uomini divenuti altrettanti ercoli». De Sade e Latour, che nel frattempo erano riusciti a fuggire in Italia, vennero condannati in contumacia, nel settembre 1772, a fare pubblica ammenda di fronte a Dio, al re e alla giustizia, «recando in mano una fiaccola di cera gialla del peso di una libbra», e fatto questo condotti al patibolo, ghigliottinato il primo e impiccato il secondo.

La foto che vedete sopra ritrae il civico 15 di Rue d’Aubagne. È stata scattata con un iphone, pochi minuti dopo essere stato avvicinato da un avventore del Mon Bar – una piccola stanza che tiene dentro di sé, come su una duna separata dal mondo, un’umanità dedita al bicchiere e all’inalazione perenne di nicotina, molto affettuosa, romantica, aperta e fraterna, quasi del tutto sdentata, ingrigita e segnata dalle rugosità precoci e asimmetriche del volto che si muovono per tutto il giorno lungo il grande specchio che domina la stanza – per rivelarmi appunto, reggendo il folklorico e locale bicchiere di pastis, che il marchese De Sade soggiornò a suo tempo dalle parti di Noailles.

Meravigliato dalla notizia, ho fatto una ricerca sullo smartphone e scoperto che la porta dell’abitazione nella quale aveva avuto luogo l’orgia, uno degli episodi più leggendari della vita di De Sade, era esattamente sull’altro lato della strada, a soli quindici metri dalla mia sedia – ho alzato lo sguardo dal display e ho vista la porta – e dal luogo in cui, il giorno prima, si era seduta una donna da un occhio nero, perché picchiata dal marito. Ho attraversato la strada e, mentre la telecamera di Zimmefrei si allontanava verso il porto alle spalle di Gerard, un cliente del Mon Bar dall’andatura elegante resa ancora più morbida e ondeggiante dall’alcol, ho scattato una prima serie di foto al civico 15 di Rue d’Aubagne. Un uomo era seduto sul gradino di fronte alla porta di De Sade, probabilmente affetto da un morbo che lo costringe a ruminare, scompostamente, a ruotare continuamente bocca e mandibola, come una biella e un pistone, e ad espellere la lingua. Ho fatto più scatti, consapevole che il dettaglio di quella persona, seduta di fronte proprio a quella porta, avrebbe reso le foto più potenti e sadean.

A quel punto, come se avessi infranto un codice non scritto e risvegliato il genius loci, due arabi si sono staccati dalla parete di un palazzo e si sono messi davanti al telefono: «Devi chiedergli il permesso. È un nostro fratello. È malato. Se vuoi fargli una foto devi chiedergli il permesso». Quindi hanno voluto sapere il motivo di quelle foto, sospettando che stessi facendo un safari nella Rue D’Aubagne, una strada che inizia con un pilastro e un busto di Omero e scende verso il porto riempiendosi di bancarelle, mercatini di stracci, resti di cibo sparsi, piccioni, vecchi africani con la giacca grigia e il fez decorato, tavolini di bar e bevitori di tè alla menta, bohemiéns, bidoni della spazzatura aperti ed esposti al sole, piazze e vicoli dove in effetti si potrebbero fotografare e filmare tutte le età dell’uomo, il commercio, l’ingrosso e il dettaglio, il gioco, le donne e la prole, lo sproloquio rabbioso degli ubriachi, l’accatastarsi delle diverse sponde e genti del Mediterraneo, gli uomini assorti al sole o diretti alla moschea, mentre si mescolano ogni giorno al contrabbando e alla piccolissima e secolare malavita.

«Volevo soltanto fotografare quella porta», ho risposto. Si è avvicinato un terzo uomo che mi ha fatto capire, senza guardarmi, e ammaestrandomi sul luogo, che non potevo fare quello che volevo, non in quella strada, mimando il gesto di un coltello. Erano in tre, a quel punto, e mi hanno chiesto di cancellare le foto, puntando le dita così vicino allo schermo dell’iphone che ho temuto il colpo di scena e lo scippo. Hanno tenuto lo sguardo sul display, controllando l’effettività del tocco su ciascun ‘elimina foto’. In quel mentre l’uomo che ruminava si è allontanato dal gradino e dall’inquadratura, e allora mi è stato concesso di scattare la foto che avete visto. Quindi se ne sono andati e tutto è tornato alla pace.

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Gentrification, il vocabolo che compare nel titolo di questo pezzo, indica il contemporaneo e globale fenomeno sociale e urbanistico in base al quale, in seguito alla ristrutturazione e alla rivalutazione immobiliare di un’area, un quartiere storico si svuota della storia, delle famiglie e delle classi sociali che lo hanno abitato per secoli e nello stesso tempo si popola di ristorantini, gallerie, studi di professionisti, negozi monomarca su più piani, open space, monolocali di lusso e qua e là abitazioni reggia ricavate dall’accorpamento di più alloggi.

Se Noailles, come il quartiere di Panier dall’altra parte del porto, fosse stato gentrificato, forse avrei trovato una targa e una spiega imbullonati accanto al portoncino dove De Sade e Latour consumarono l’orgia con Marianette, Marie, Marianne e Rosette. Al contrario, Noailles è rimasto sé stesso e intorno a quel luogo, il civico 15, può tornare a intrecciarsi un vecchio filo nero – l’uomo ammalato seduto sul gradino, il tono minaccioso dei tre individui stretti intorno al mio telefono, il gesto mimato del coltello, la donna dal livido intorno all’occhio – che ha prodigiosamente custodito intatto, pronto ad aprirsi come un’orchidea, quel groviglio energetico, quel lato oscuro della Rue d’Aubagne, e della vita umana, in cui sguazzò il marchese De Sade nei giorni del suo marseilles scandal.

Ivan Carozzi

Ivan Carozzi è stato caporedattore di Linus e lavora per la tv. Ha scritto per diversi quotidiani e periodici. È autore di Figli delle stelle (Baldini e Castoldi, 2014), Macao (Feltrinelli digital, 2012), Teneri violenti (Einaudi Stile Libero, 2016) e L’età della tigre (Il Saggiatore, 2019).