Qualcosa di brutto che ho visto in TV

Lo scorso primo giugno su Rai Due è andato in onda un servizio all’interno del programma di prima serata Nemo, Nessuno escluso intitolato intitolato “La sposa bambina”. Si raccontavano con molti dettagli i preparativi per la prima comunione di alcune bambine di Napoli e di una in particolare, lasciando il racconto stesso alle immagini e alle parole delle madri. A parte il fatto che i padri non compaiono mai, quello che ne esce sono soprattutto l’aspetto “folcloristico”, uno stigma sociale e il fatto che da quel mondo non ci sia alcuna via d’uscita. Cioè, qualcosa che c’entra, ma solo in parte.

I commenti successivi al servizio si riducevano a questo: “madri che danno alle figlie ciò che loro non hanno avuto” con conseguenti domande agli ospiti del tipo: “e tu che vorresti dare ai tuoi figli di quello che non hai avuto?”. Il servizio presenta le cose così come sono. Non si doveva fare? No, ovviamente. Si poteva fare in modo diverso? Certamente sì.

Il servizio poteva essere sostenuto con degli approfondimenti e con la descrizione necessaria di un contesto (non mi riferisco ovviamente a quello di Napoli), non doveva attribuire la responsabilità solo “alle povere madri sfortunate”, doveva chiedersi da dove tutto quello arrivasse e quali sponde trovi quotidianamente, anche in televisione. Infine, come è stato scritto qui, doveva essere accompagnato da «strumenti per tentare di comprendere le ragioni di questi fenomeni, nonché le correlate responsabilità private o pubbliche che siano. La tv è responsabile della costruzione, della veicolazione e della sopravvivenza di certi immaginari, come anche delle false aspettative e visioni distorte che ad essi conseguono. Nel tempo ha prodotto e consolidato modelli idonei ad ingabbiare le persone e non si è preoccupata di fornire stimoli alternativi, limitandosi così ad assecondare la cultura vigente». Quello che ne esce è invece una totale deresponsabilizzazione: «Troppo semplice narrare di un ascensore sociale bloccato, facendone ricadere la colpa su chi vi è rimasto rinchiuso e non su chi deve garantire il funzionamento dell’intero sistema sociale, affinché sia assicurata a tutti una prospettiva di vita dignitosa ed il più possibile egualitaria e paritaria».

La seconda cosa che mi è passata davanti andrà in onda su la Nove a luglio, ma c’è un’anteprima e non è affatto promettente:

Il reportage, Professione Lolita, viene presentato così: «Ottobre 2013: esplode il caso delle ‘baby squillo dei Parioli’. Due teenager romane (14 e 15 anni) si prostituivano in un appartamento del quartiere, con la protezione di un trentenne che organizzava loro gli appuntamenti. Il caso assume subito rilevanza mediatica nazionale. Cosa c’è dietro questa storia? Chi sono veramente le protagoniste, consapevoli e inconsapevoli, di questa disavventura? Quali turbamenti si annidano in questo fatto di cronaca? Ecco il documentario sul caso che ha sconvolto la Roma “bene”».

Disavventura? Turbamenti? Baby squillo? Le premesse sembrano le solite e molto poco incoraggianti. Per ora possiamo certamente dire che usare il termine “baby squillo” – come nel 2016 aveva ricordato anche l’Ordine dei Giornalisti – non è corretto: non esprime il fatto che le bambine siano le vittime e che gli uomini che abusano di loro siano dei pedofili. “Baby squillo” sostituisce cioè le vittime con i colpevoli: e quest’informazione è falsa, fuorviante e parte del problema.

Giulia Siviero

Per ogni donna che lavora ci vorrebbe una moglie. Sono femminista e lavoro al Post. Su Twitter sono @glsiviero.