Un governo senza l’X factor

Un articolo di Marcello Musto pubblicato dal Manifesto ci ricorda il disappunto espresso dal giornalista del New York Tribune Karl Marx in occasione della nascita di uno dei primi casi di governo tecnico della storia, il gabinetto Aberdeen nell’Inghilterra del 1852.

Marx era preoccupato che la politica cedesse del tutto campo all’economia e che i governi non discutessero più di quali indirizzi economici adottare ma fossero gli stessi indirizzi economici a generare la nascita dei governi al posto della democrazia.

Ma più di tutto stupisce la terminologia che Marx usava per definire i governi tecnici: li chiama i “governi di tutti i talenti”.

Oggi la parola “talento” ci porta alla mente suggestioni solo apparentemente lontane dalla politica, ovvero i televisivi “talent show”. Da “Amici” a “X Factor” passando per “Italia’s got Talent”, eccoci ora al nuovo format, il cui titolo di lavorazione è “Governo’s got Talent” (o preferite “X Governo”)?

Ovvero, chi seleziona oggi i nostri talenti in corsa per il Governo Monti?

Dal momento che il pubblico da casa non può né votare né tele votare, sarà la giuria a decidere chi tra un Salvatore Settis o un Paolo Baratta ha l’X factor per diventare ministro. I giurati non sono né Morgan né Arisa e i concorrenti sono oggetto di trattative al buio (non teletrasmesse), togliendo allo spettatore anche la semplice possibilità di assistere al voto: “Per te il governo continua”, oppure “La tua avventura a X Governo finisce qui”.

Insomma, come nuovo format si potrebbe dire che televisivamente non regge, e soprattutto non conquista il pubblico, non lo tiene attaccato davanti al teleschermo. Unici espedienti acchiappa-pubblico sono la possibile presenza di “ex famosi” come Pietro Ichino o il ripescaggio di concorrenti delle altre edizioni come Giuliano Amato.

Sarà per questo che – caduta del Sultano Berlusconi a parte – questa importante fase della politica italiana non riesce ad accendere il nostro interesse come dovrebbe e a suscitare un reale dibattito politico. Gli italiani davanti a un governo tecnico si trovano privati non solo del voto, ma della possibilità di essere almeno spettatori e giudici di quello che sta succedendo.

AL contrario, come racconta Michael D. Shear sul New York Times (segnalato dal fantastico Nomfup), negli Stati Uniti i dibattiti politici in televisione hanno accresciuto il loro interesse presso il pubblico, perché il pubblico stesso – educato da anni di talent e reality – li considera come una performance ed è portato subito a esprimere il proprio giudizio e a schierarsi.

Forse sarà vero quello che cantava Gil Scott-Heron: “The revolution will not be televised”, la rivoluzione non verrà teletrasmessa. Anche se in molti dubitano che in questo caso si tratti di rivoluzione…

Giovanni Robertini

Vive a Milano. Come autore televisivo ha fatto parte del gruppo di brand:new e di Avere Ventanni per Mtv; de L'Infedele e di Invasioni Barbariche (dove si trova ora) per La7. Ha pubblicato il libro "Il Barbecue dei panda - L'ultimo party del lavoro culturale"