Metafore e propaganda

Non condivido la posizione complessiva di Donatella Di Cesare sulla guerra in corso (almeno per come l’ho capita), tuttavia ho trovato utile e interessante una parte del suo intervento in una delle sue apparizioni televisive. È stato quando in uno scambio molto vivace con Mario Calabresi (la cui posizione complessiva sulla guerra in corso io condivido), quest’ultimo, per spiegare come vedesse l’atteggiamento di Putin, ha detto “È come se arrivasse il vicino di casa con la mazza da baseball perché tu fai casino da mesi nel condominio” (virgoletto ma la citazione non è testuale). Di Cesare l’ha interrotto affermando: “Questa è propaganda”.

Trovo interessante e utile quell’affermazione, perché su questo Di Cesare ha ragione. Ciò non vuol dire che Calabresi volesse fare propaganda per chissà quali poteri o che fosse in mala fede (ripeto: io sono d’accordo con la sua posizione generale e trovo azzeccatissima la metafora), ma perché quando si passa dall’analisi delle cause al linguaggio del paragone, dell’analogia, della metafora, si sta passando da un piano ad un altro piano, cioè letteralmente al piano della propaganda delle posizioni.

E per certi aspetti non si può fare altrimenti. Le scelte collettive non si fanno solo su elementi strettamente razionali, ma su un tipo di razionalità che è legato agli aspetti affettivi, che è veicolata da immagini, da metafore, da vere retoriche. Ciò non vuol dire che Di Cesare abbia ragione e Calabresi torto, o viceversa, ma che in quel momento l’opinione di Calabresi aveva la forma della propaganda, proprio per la natura metaforica dell’argomento.

Sto usando il termine “propaganda” in senso neutro, non peggiorativo. Del resto si può fare propaganda, nel senso peggiorativo, anche con un linguaggio del tutto asettico, privo di immagini e apparentemente oggettivo. Dunque che una filosofa sottolinei un elemento propagandistico è qualcosa di utile a tutti. Ed è anzi un peccato che il discorso si sia chiuso con una semplice battuta.

L’uso di immagini e metafore è del resto uno strumento formidabile per filtrare la realtà, per orientarla (basterebbe osservare il linguaggio allucinato dello stesso Putin, o l’ampio dibattito sulla metafora della guerra per definire il Covid), ma anche per far capire a noi stessi il punto, per rendere più comprensibili fenomeni certamente complessi, ma che rischiano altrimenti di sfuggirci e di rimanere quindi senza senso. Il rischio è quello della manipolazione (o del fraintendimento) e della propaganda, ma è un rischio che corriamo in ogni fenomeno sociale e politico.

Per gli stessi motivi è assolutamente propagandistico il paragone usato da Carlo Rovelli in un’altra trasmissione televisiva per spiegare il suo disaccordo sull’invio delle armi all’Ucraina. “Immaginiamo – anche qui virgoletto ma sto parafrasando – che camminando per la strada io veda un ragazzino che viene aggredito da un omone armato di coltelli e pistole. Posso fare tante cose, come chiamare la polizia, ma una cosa stupida non posso fare, quella di non entrare in gioco ma dare un coltello al ragazzino, incitandolo a difendersi, perché in questo modo invece di due botte si prenderà un colpo di pistola o un coltellata”.

A parte il fatto che, a differenza della metafora di Calabresi, questa non regge molto (mi pare), perché non è univoca, tecnicamente può essere chiusa in molti modi e in modo contrario a quello voluto da Rovelli. Probabilmente la maggior parte di chi ha ascoltato il paragone avrà pensato: Se vedo un omone che aggredisce un ragazzino, io intervengo o chiedo aiuto ad altri passanti per bloccare tutti insieme l’omone. Il che, stando nella metafora, vorrebbe dire che in Ucraina sarebbe stato meglio intervenire militarmente in vari stati, forse la Nato. Cioè, cognitivamente la metafora è sbagliata perché ci fa pensare esattamente il contrario di quanto vorrebbe farci pensare Rovelli.

Ma a parte questo, è chiaro che siamo anche qui, tecnicamente, nella piena propaganda. Neppure in questo caso si vuol dire che Rovelli sia una propagandista mosso occultamente dall’ex KGB. I suoi argomenti restano assolutamente validi (per chi li ritiene tali). Il punto è, ancora una volta, che il nostro linguaggio è intriso delle nostre percezioni (oltre ad orientarle) e di quella particolare razionalità politica che è fatta di affetti, giudizi e pregiudizi, educazione, orientamenti. Teniamone conto, in ogni caso.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.