La posta in gioco ideologica della guerra

Non vorrei aggiungere rumore di fondo al rumore di fondo che già c’è, ma su alcuni argomenti che circolano (e non solo sui social) sugli errori dell’Unione Europea, sulle presunte provocazioni alla Russia, sulla mancanza di saggezza e lungimiranza negli ultimi trent’anni dei paesi occidentali, mi permetto di fare qualche considerazione.

È infatti del tutto evidente (anche dagli argomenti di quel tipo) che questa guerra ha un valore politico, strategico e ideologico di portata straordinaria. In gioco c’è da una parte la narrazione russa della perdita e della ricostituzione di un impero, dall’altra la riconfigurazione del valore e della potenza dell’Unione Europea.

L’esigenza russa di ricreare uno spazio di influenza è del tutto comprensibile (e per certi aspetti anche ovvia storicamente e forse, in un quadro diverso da quello attuale, conveniente). Ma come la Russia ha cercato in trent’anni di soddisfare questa ambizione? Con un solo paradigma a disposizione, quello dell’autoritarismo. Qui è il punto ideologico che trovo interessante. Ed è il punto ideologico che sta dietro a questo scontro tra blocchi. La Russia di Putin non è stata in grado in vent’anni di porsi come modello di attrazione per i suoi stretti vicini che guardano a Occidente. Ha invece ingerito pesantemente sulla vita di molti stati legandoli a sé con mezzi di vario tipo.

Ma un paese così grande, così potente, così ricco di risorse avrebbe certamente potuto costruire in modo ideologicamente diverso la propria egemonia (e per una certa fase la Russia si era effettivamente aperta, con la partecipazione al G8, che era a sua volta un’apertura alla Russia dell’Occidente). Del resto la Russia di Putin è un paese autoritario al suo interno, dove il dissenso è mal tollerato, dove l’economia – che si basa sulle risorse energetiche e non su una particolare vivacità d’impresa – è nelle mani dei famosi oligarchi. Questo è quello che Putin ha saputo offrire ai suoi concittadini e alla costruzione di uno spazio più ampio. E tutto questo è stato nel tempo sempre più inserito in un racconto dei destini russi che è culminato con il discorso, allucinato, di una settimana fa sulla storia russa e ucraina.

Putin ha delineato più di un secolo di storia russa sotto il segno del declino e anzi della catastrofe: errori dell’impero zarista, crollo dell’impero, errori di Lenin, errori di Gorbaciov, crollo dell’Unione Sovietica. E tutto a partire non dalla pluralità delle genti dell’impero e dei popoli dell’Urss, ma solo ed esclusivamente centrandosi sul dominio russo sui popoli ex imperiali. L’autoritarismo interno si traduce in un autoritarismo esterno, se così posso esprimermi.

Quello che però risultava tragico e grottesco nel discorso di Putin è che di fatto la serie di catastrofi russo-imperial-sovietiche delineate veniva conclusa con l’annuncio di un’ulteriore catastrofe, quella dell’aggressione a un paese fratello come l’Ucraina. L’azzardo finale di un dittatore imbevuto di fantasie macabre e forse l’allontanamento ulteriore del suo paese dall’alveo europeo viene preparato da un racconto di declini.

Ma è da qui che deriva anche allo stesso tempo il disprezzo e la paura di Putin per l’Unione Europea. Esiste una frontiera ideologica, data dall’autoritarismo da un lato e dalla democrazia liberale dall’altro, che Putin usa come difesa quando evoca una nuova cortina di ferro.

Sto dividendo in buoni e cattivi? No. Sto parlando di modelli diversi. Le democrazie liberali europee sono fondate sull’ideologia dei diritti politici, delle libertà individuali, della rappresentanza. Questo non fa di loro dei sistemi perfetti o paradisiaci, né eticamente superiori agli altri. Ma è patetico sentire degli intellettuali da giornale, in questi giorni, attaccarsi alle incoerenze dei nostri paesi, alle contraddizioni tra l’elemento ideale e quello reale, alle oscillazioni nelle decisioni, alle lentezze, all’ipocrisia (che c’è) dei nostri governi e nostre, per bilanciare le ragioni di Putin a quelle europee.

È patetico, perché il punto non è questo. Il punto è che questa ideologia democratica (perché di ideologia si tratta, non di dato antropologico o di natura), che trova nell’Unione Europea uno snodo storico epocale, è molto diversa dall’ideologia autoritaria di Putin, ma ha avuto una sua capacità di irradiazione sul continente (è Putin stesso, con le sue paure, che ce lo sta facendo notare).

Per questo uno degli obiettivi di Putin è ormai da anni la disgregazione dell’Unione Europea. E non è un caso che Putin abbia appoggiato o/e sia stato appoggiato dai movimenti sovranisti occidentali (Le Pen, Salvini, Trump, Zémour…), quelli europei tutti in gradi diversi contro l’Unione Europea, tutti “exit”, tutti simpatizzanti per uno stile di pensiero autoritario da “pieni poteri”, tutti a fantasticare il proprio paese fuori dall’Unione con i vicini, tutti a dire che da soli si è più forti. Pensare che l’attrazione di questo modello europeo sulla maggior parte dei paesi dell’ex blocco sovietico sia stata e sia così forte è però una vittoria storica. Quando l’Ucraina dice che vuole liberamente entrare nell’Unione Europea (lo so, c’è il problema Nato, che è diverso, che esiste anche per gli europei, e che non è ora il focus del mio ragionamento), questa non è un’aggressione europea alla Russia, ma è un fallimento storico dell’autoritarismo russo, è l’avviso della fine di Putin e del crollo del suo modello ottocentesco e “sovietico”. Putin invadendo l’Ucraina crede di rilanciare la sua narrazione nazionalista (senza il minimo rispetto per le nazioni altre), crede di indebolire l’Unione Europea e poi domani chissà, di contribuire a sfaldarla, crede di guadagnare un ruolo russocentrico nelle sfide mondiali, ma la verità è che sta in primo luogo cercando di mantenere il suo potere personale e che in un tempo medio finirà per aggiungere un fallimento epocale a quel romanzo nazionale a cui nessuno, probabilmente neanche i russi, crede. La guerra in corso è anche, se non soprattutto, una guerra di ideologie e le democrazie europee riunite nell’Unione Europea sono davvero in prima linea.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.