No, non è una guerra

Si dice “è una guerra”. L’ha detto Macron sei volte con la solennità del caso: “Siamo in guerra”. Lo ripetono i governatori regionali e i sindaci, anche nella versione del “resistere”, che nell’immaginario nazionale evoca il Piave e la lotta al nazifascismo, variante anche questa della guerra. Continuiamo a ridircelo sui social e sui giornali e anche i virologi: guerra, guerra, guerra…

Quella della guerra è una metafora potente ed efficace che funziona quasi sempre. Perché? Perché è capace di dirci che c’è un nemico, ci avverte che c’è un pericolo incombente, ci chiama all’azione, ci dà esempi di eroismo, ci dà una linea netta del fronte, ci connette alla storia nazionale.

La guerra poi è uno dei fondamenti estetici della storia europea, se posso esprimermi così. L’Europa comincia con l’Iliade, che è la storia di una guerra talmente bella, talmente eroica, talmente gratuita, da essere raccontata per tutte le generazioni fino alla fine dei tempi.

Però questa volta la metafora della guerra non funziona. Questa non è una guerra.

Non c’è un nemico esterno (c’è chi lo cercherà, ma è un’altra faccenda), non possiamo batterci come in una guerra, non ci dice contro chi agire, non ci spiega in che cosa consisterebbe la resistenza, dove starebbe il fronte, non è una faccenda di nazioni, ma di mondo, non difende frontiere.

Non solo non è una guerra, ma quello che è veramente – cioè un contagio, un’epidemia – è un’esperienza talmente potente che è a sua volta da sempre usata come metafora per altro: il vizio, il male, gli errori sono contagiosi, i cattivi esempi, le idee che non ci piacciono sono morbo, gli eretici erano pestiferi, per non parlare dei dissidenti politici, da mettere nella quarantena del campo di rieducazionoe o da estirpare come una malattia infettiva. O pensiamo a esperienze più comuni e banali, come la comunicazione virale, o i virus dei computer.

La metafora della guerra questa volta non funziona perché ci deresponsabilizza. Lascia pensare che al fronte ci siano solo i medici e gli infermieri che combattono contro il virus (che viene poi sempre personificato…. maledetto virus, sei malvagio, ma non ci batterai). Ci inquieta, ci spaventa, ma in fondo nessuno ci bombarda, nessuno ci spara addosso davvero, e allora tanto vale fare una corsetta (disclaimer: non ce l’ho con chi corre), o prenderci un caffettino (quando ancora si poteva), o tentare di andare a mangiare da mamma.

Intendiamoci, non mi sfugge il valore performativo delle metafore (nel mio piccolo c’ho anche scritto un libro, anni fa…), ma in questo caso specifico forse quella che va detta è proprio la letteralità del fenomeno, se dire epidemia ci pare poco. Si tratta cioè di una catastrofe sanitaria mondiale.

Tralasciando il fatto che anche “catastrofe” è una metafora, di cui però abbiamo perso memoria, introiettare l’idea della catastrofe sanitaria mondiale ci rende più chiaro che ogni comportamento individuale contribuisce all’allungamento o all’accorciamento del fenomeno, ci aiuta a capire che non c’è una linea del fronte, un orizzonte da cui spuntano i nemici, ma un arzigogolo di relazioni, di linee, di punti, che sono i terminali globali del contagio e che noi siamo uno di quei punti e siamo noi a tracciare linee e curve di trasmissione, ci aiuta a comprendere che non ci sono nemici esterni, ma neanche interni e che le armi sono le mascherine (e quelle ci vogliono) perché interrompono gli arabeschi, sono le mani pulite, è un po’ d’attenzione, ovviamente ospedali e formazione e ricerca. Non ci sono attacchi da parte di malvagi conquistatori, ma un po’ di applicazione e concentrazione a cosa facciamo, non c’è odio, ma cura e affetto per lo snodo che noi siamo e il fascio di relazioni che si snodano attorno a noi.

Solo alla fine di questa catastrofe sanitaria mondiale forse, purtroppo, dovremo ritirare fuori la metafora della guerra per far fronte a quel che succederà, o forse no, forse troveremo metafore più efficaci e capaci di aiutarci a mettere a punto soluzioni. Governare è anche trovare metafore che cambiano i processi in corso.

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.