Un bel parlamento e un bel governo

In fondo il parlamento uscito dalle elezioni sarebbe anche un bel parlamento, che rappresenta opinioni molto varie, ma anche possibili incontri e collaborazioni su alcune cose che stanno a cuore a tutti. Pensate che belle leggi potrebbe fare il parlamento più giovane d’Europa, come è questo italiano del 2013, il parlamento che ha una percentuale altissima di nuovi eletti, di donne, che ha una quota importante di persone che si sono battute per nuovi modi di vedere le cose, per i diritti, per spezzare certe consuetudini.

Sì, perché il parlamento fa le leggi. Il parlamento è il potere legislativo. Poi c’è il potere esecutivo, che è il governo. E certamente propone leggi anche il governo e ha bisogno di una maggioranza parlamentare per esistere. Però è un altro potere, distinto, con finalità diverse (anche se ci sono aree di sovrapposizione).

La maggior parte delle nostre discussioni non tiene conto di questa separazione. E questo va a detrimento del potere legislativo – che non viene mai restituito alla sua funzione principale, cioè quella di fare delle leggi belle e piene di buon senso, ma nelle nostre discussioni è sempre considerato in funzione del suo reggere il governo – e va a detrimento del potere esecutivo, sempre appeso a questa storia di un deputato in più o in meno, sempre ricattato da gruppi e gruppetti che dicono “noi tanto rimaniamo, e il governo lo facciamo cadere quando vogliamo e ne mettiamo un altro e poi ricominciamo”.

Quando si è fatta la costituzione – che non è un messaggio rivelato dall’arcangelo Gabriele, ma un prodotto storico – si aveva paura che dare agli italiani il potere di eleggere l’esecutivo, cioè il governo, ci potesse riportare nel fascismo. Nel fascismo il parlamento praticamente non c’era, c’era solo il governo, un gruppo di lupi che decideva tutto senza consultare nessuno, anche se dichiarare guerra all’America, alla Francia e alla Gran Bretagna.

Quindi la costituzione ha deciso che in Italia gli italiani non avrebbero mai votato per l’esecutivo, ma solo per il legislativo, e poi c’avrebbero pensato i parlamentari e i partiti a decidere chi avrebbe governato e anche altre cose.

In altri paesi invece i cittadini votano sia il parlamento sia l’esecutivo. Per esempio in America, in due elezioni diverse. O per esempio in Francia, dove fino alla fine degli anni ’50 avevano un sistema come il nostro, ma poi non riuscivano a governare, e allora hanno deciso di votare sia l’uno che l’altro, e neppure nello stesso giorno, per non confondersi. E funziona ancora così: Hollande è stato eletto a maggio e qualche settimana dopo gli elettori hanno anche votato il parlamento. E se poi la maggioranza è diversa? È capitato tante volte: si trovano delle soluzioni, perché il presidente può cambiare il primo ministro, ma lui resta e la stabilità finora è sempre stata garantita.

Non contare nulla ha i suoi vantaggi, nel mio caso quello di scrivere un post che non è di attualità e che non risolve la cronaca politica di questi giorni. Però con tutte queste novità, ora che la stabilità è obbligatoria (molto più che in passato) per le necessità della connessione con l’Europa e che anche noi abbiamo capito che non si è meno democratici se si vota anche il governo, anzi lo si è di più, potremmo cominciare a pensarci, no? E forse noi non siamo politicamente instabili per un dato antropologico, ma perché non abbiamo un sistema di governo adequato. In fondo non è neppure esatto dire che l’Italia è culturalmente contro il voto all’esecutivo: la Lombardia è presidenzialista, la Sicilia è presidenzialista (per questo i grillini possono collaborare col presidente, perché sono due livelli distinti), il Lazio è presidenzialista, il Molise è presidenzialista, l’Emilia Romagna è presidenzialista, la Puglia è presidenzialista… Perché solo a livello nazionale non ci pare utile?

Gianluca Briguglia

Gianluca Briguglia è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Venezia Ca' Foscari. È stato direttore della Facoltà di Filosofia dell'Università di Strasburgo, dove ha insegnato Filosofia medievale e ha fatto ricerca e ha insegnato all'Università e all'Accademia delle Scienze di Vienna, all'EHESS di Parigi, alla LMU di Monaco. Il suo ultimo libro: Il pensiero politico medievale.