Quando muore qualcuno

Quando muore qualcuno è come tirare dei fili, si scoprono legami, intuiscono incontri, e si capisce qualcosa del morto e del tempo e del luogo in cui tu e lei avete vissuto. Ieri sono andato al funerale di Patricia Chendi, che è morta all’improvviso a 54 anni per una dissezione dell’aorta, ma non voglio parlarvi di questo e non voglio scrivere un suo ritratto, né del suo lavoro, lo ha fatto benissimo Chiara Valerio, se non l’avete conosciuta, peggio per voi, vi basti sapere che è stata una delle editor più importanti e fantasiose degli ultimi vent’anni, solo che per lei i libri erano cose da intuire, inventare, costruire, palloni con cui giocare, e anche per questo il suo nome non è così conosciuto, eppure quando la incontravi per caso a una festa o a un funerale era sempre bello, perché era allegra, esuberante e insicura, e aveva due occhi chiari curiosi di tutto. (Quando qualche mese fa le ho chiesto se avesse voglia di insegnare scrittura si è emozionata tantissimo, e mi ha detto che non lo sapeva se poteva insegnare qualcosa. L’insicurezza è una delle prove dell’intelligenza).

Patricia Chendi, al centro, all’open day del Laboratorio Formentini il 13 gennaio scorso (Foto Erica Baldaro)

Il funerale di Patricia Chendi si è tenuto nel settore ebraico del Cimitero maggiore di Milano, in via Jona, un cartello vietava di entrare a chi non era a capo coperto, ma in molti, come me, non avevano una kippah né un berretto di lana, e però siamo entrati lo stesso. Non lo sapevo. Non lo sapevamo. Nessuno mi aveva avvisato di portarmi un cappello. Tra le tombe con la stella di David, sotto i palazzi tristi del Gallaratese, c’erano quasi duecento persone comparse dal nulla, molta era gente dell’editoria, tantissimi non li ho identificati, e moltissimi familiari per me sconosciuti che durante la cerimonia si sono perdonati, hanno pianto, gridato, pregato, si sono passati la vanga per buttare la terra sulla bara e alla fine, per stracciarsi le vesti, si sono tagliati a vicenda le camicie e i vestiti.

Io non lo sapevo che Patricia Chendi fosse ebrea, e questo anche se la incontravo da venticinque anni. Sapevo che era sposata a Massimo Boffa per cui, ai tempi in cui era capo della cultura di Panorama, scrissi uno dei miei primi articoli – “Stile Libero? No, stile bulgaro” – ma anche questo era un accidente: Patricia Chendi per me era – me ne accorgo ora che è morta – una di quelle persone che nella vita rimbalzano, un po’ come Mario Dondero, di quelle che sai che stanno girando da qualche parte come pianeti, ma prima o poi le incontri, compaiono, e anche se passano i mesi e non ci pensi più a loro, lo sai che presto ti rimbalzeranno addosso di nuovo con tutta la loro allegria, e infatti rimbalzano sempre, ed è bello così, ed è giusto così, perché lo sapete entrambi che quella è la misura della vostra amicizia, e non è necessario saperne di più. Finché sarete vivi andrà così.

E invece quando muore qualcuno appaiono i fili, appare la famiglia d’origine, i riti e le tradizioni, i legami più stretti in testa al corteo, nelle file davanti in chiesa o più vicini alla fossa, e appare cioè l’appartenenza, il passato, la classe sociale, il tipo di famiglia, l’osservanza religiosa, che per esempio in Patricia non avresti mai sospettato, pur con quel nome esotico e strano; e riappaiono anche persone che non vedevi da trent’anni o che frequenti spesso ma in altri ambiti e non pensavi c’entrassero con lei, persone con cui non hai mai sospettato di avere altri legami; e così, di colpo, si forma una specie di costellazione, un guazzabuglio di relazioni che raccontano come e dove hai vissuto, chi hai frequentato e, in fondo, chi sei. I sei gradi di separazione sono gradi di prossimità.

Quando muore qualcuno capisci che ogni storia nasce da lì: è la morte a tirare i fili e a trasformare gli incontri, il lavoro, le nostre esuberanze, malinconie e insicurezze, in qualcosa che si può raccontare. Per questo quando muore qualcuno di famoso o conosciuto, si scatena una gara un po’ oscena ad accaparrarsi un pezzo del morto. È la morte a dare la forma finale alla vita, alle vite dei morti e dei vivi. La morte racconta la storia di chi all’improvviso, e senza alcun senso, è scomparso, come Patricia Chendi, e non rimbalzerà mai più con quei suoi occhi che sembravano sempre sul punto di ridere e la sua voce rauca, ma racconta anche le storie smozzicate di chi, come noi, rimarrà qui ancora per un po’ a ricordarsi di lei.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.