Il perdono di Pavese

Leggendo l’autografo dell’ultimo biglietto scritto da Cesare Pavese prima di uccidersi il 27 agosto di 70 anni fa nella camera 346 dell’Hotel Roma di Torino, mi è appena venuto un dubbio stupido, che però cambierebbe tutto, o molto, e mi è venuta voglia di condividerlo pur sapendo che è stupido.
Il biglietto dice:
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi. Cesare Pavese”

Il mio dubbio stupido nasce dal fatto che nel testo non ci siano accenti. So bene che sarebbe stato affettato, per quanto molto einaudiano, scriverli in un biglietto di commiato, ma il testo si presta comunque alla possibilità di un gioco di parole e di un’ambiguità, che potrebbe essere perfino inconscia (nel Mestiere di vivere Pavese rimprovera alla psicanalisi di avere sostituito la colpa con la malattia, ma si domanda se l’inconscio non sia dio).

La parola ambigua è «perdono», parola ambigua di suo. Il dubbio stupido è che, spostando un accento, la parola potrebbe non essere «perdóno», ma «pèrdono». Il biglietto non sarebbe quindi un gesto di riconciliazione, per quanto concesso dall’alto, dall’imminenza della morte e dall’avere avuto la forza di sceglierla (chi «perdóna» ha subito un torto, quindi per definizione è innocente), ma un messaggio che scivola nella maledizione.

«Pèrdono tutti»: ognuno è destinato alla sconfitta. Mi rendo conto che la frase successiva – «E a tutti chiedo pèrdono» – è meno ambigua e che questo indebolisce molto l’ipotesi, ma mi piace continuare a seguire il pensiero. «E a tutti chiedo pèrdono»: e a tutti chiedo se lo sanno che «pèrdono». Lo sapete che alla fine di tutta questa storia piena di grida e disturbi emotivi senza significato, che alla fine di tutto il «mestiere di vivere», c’è questa cosa qui? La sconfitta? Niente di niente?

Non è mia intenzione deprimere, lo giuro. Anche perché la lettura comune, quella del «perdóno» non è che mi abbia mai consolato, anzi mi ha sempre depresso, perché attutisce la radicalità del gesto, cioè fa riprecipitare Pavese nelle ganasce del cattolicesimo, lo rende in qualche misura consolante come un personaggio romantico qualsiasi, per quanto tragico e sofferente. L’idea stessa del «perdóno», per quanto concesso in punto di morte, mi è sempre sembrata un atto di arroganza e una manifestazione di superiorità auto-proclamata. Come ha detto papa Francesco, «chi siamo noi per giudicare?»

Insomma, la verità è che so benissimo che la lezione giusta è «perdóno», ma preferirei che fosse «pèrdono». Nel primo caso il culto di Pavese, il primo scrittore italiano del dopoguerra a essere diventato in morte un eroe letterario, sarebbe dovuto alla sua capacità di scrivere sul crinale tra cattolicesimo ed esistenzialismo, con il primo che in punto di morte prevale. È la soluzione che indicherebbe anche l’ultima frase – «Non fate troppi pettegolezzi» – in cui l’avverbio «troppi» sembra un’altra concessione all’idea di peccato e di perdono. Nella seconda ipotesi – ripeto, improbabile – avrebbe vinto l’esistenzialismo.

Il 10 marzo 1990 Edoardo Sanguineti pubblicò su Repubblica un breve articolo intitolato (non da Sanguineti, presumibilmente) Era cattolico senza saperlo che parlava di Il mestiere di vivere e delle ragioni del suo successo. Sanguineti inizia dicendo che il libro non è il capolavoro di Pavese, ma che trasformò il suo autore in una specie di star perché era un diario.

«Il fatto è che Il Mestiere di vivere, pur rimanendo opera di uno scrittore, rendeva possibile leggere lo scrittore come un personaggio. Credo che qualcosa di simile sia successa con Pier Paolo Pasolini una generazione dopo».

Sanguineti continua chiedendosi, senza giudicare, quanto il cattolicesimo sia stato – e aggiungo io: sia – importante per la fortuna di Pavese e di Pasolini, e risponde in modo chiarissimo:

«Il cattolicesimo è stato per ambedue un tramite forte del consenso».

«In Pavese mi ha sempre impressionato quel bisogno di confessarsi a se stesso, bisogno che pone il problema del peccato e della colpa. Sono parole, peccato e colpa, non frequenti nel diario, ma io credo che una delle ragioni del successo sia nella problematica cattolica occulta».

Scrive cioè – oppure lo scrivo io – che la religione cattolica è ancora all’origine dei processi psicologici e sociali che presiedono alla glorificazione di alcuni individui tra i molti, e al loro successo. Che continuiamo a cercare di santi, ma non ci diciamo che questo bisogno nasce da una «problematica cattolica occulta». Ed è grazie a questo meccanismo di rimozione che i santi possono trasformarsi in personaggi e in star, o viceversa.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.