La paura parla sottovoce

Oggi su El Paìs c’è un mio articolo che racconta le prime ore di domenica mattina a Milano. Il risveglio della città, non ancora consapevole di quello che era accaduto nella notte di sabato e di quello che sta accadendo. Lo hanno titolato «La paura parla sottovoce», perché quando il pericolo ci riguarda davvero facciamo di tutto pur di avere paura il più tardi possibile. Nel corso della giornata, mi sembra, l’atmosfera è molto cambiata. I dati spaventosi di domenica sera, le testimonianze tragiche dei medici e la presa di coscienza della chiusura non possono più essere ignorati neppure da chi, fino a ieri, si ostinava a minimizzare. La mia strada è deserta. Sono quasi tutti chiusi in casa. Da fuori continuano ad arrivare le sirene delle ambulanze.

Di seguito c’è l’articolo in italiano. Lo posto per ricordarci com’era la città la mattina di domenica 8 marzo. Grazie ai medici, agli infermieri e alle persone che stanno facendo qualcosa per gli altri.

La mattina dopo sembra la mattina prima. In piena notte il governo ha decretato la chiusura della Lombardia e di quattordici province, tra cui Milano, la città più ricca e moderna d’Italia. Le strade sono più vuote, ma chi le vedesse per la prima volta non se ne accorgerebbe. Soltanto davanti al supermercato, dalle 10 della mattina, si è formata la coda. Le persone aspettano, tenendosi a una certa distanza, il loro turno per entrare. Mi lascio alle spalle la zona del Lazzaretto, l’edificio dove nell’antichità venivano ammassati i contagiati, e mi incammino per corso Venezia, la stessa strada percorsa da Renzo quando entra a Milano durante l’epidemia di peste del 1630 nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni, il più famoso romanzo italiano. È una giornata bellissima. I reparti di terapia intensiva ormai intasati, le testimonianze tragiche dei medici, il diffondersi impressionante dell’infezione qui non sono ancora arrivati. La paura parla a bassa voce, i morti tacciono ancora. Ci sono famiglie a spasso con i bambini, anziani, padroni di cani, gente che corre, telefona o legge il giornale sulle panchine.

Sembrerebbe un giorno normale se non fosse per lo strisciante riorganizzarsi delle distanze tra i corpi. Ai semafori ci si tiene distanti, le mani stanno più in tasca e quando ci si incrocia sul marciapiede ci si scansa camminando radenti ai muri e più distanti dagli altri. Si sono attutite, invece, le distanze sociali perché tutti ognuno, dal barbone al manager, potrebbe essere infetto. All’inizio di corso Vittorio Emanuele, all’altezza del luogo dove sorgeva il forno assaltato nei Promessi sposi, due vigili leggono insieme il decreto per capire se la chiusura dei negozi nei giorni festivi è già entrata in vigore. Mi avvicino, non tanto, per chiedere. Arrivano altre persone, parliamo. I vigili dicono di non avere avuto istruzioni, ne sanno meno di noi, poi una donna tossisce e ci disperdiamo all’istante, come piccioni.

Fino alla notte scorsa, i locali sono stati pieni e anche oggi sui Navigli e ovunque la gente fa il brunch. Per altri la preoccupazione è se tornare o no dalla montagna, dove gli impianti sono stati chiusi. A Milano le scuole sono chiuse da settimane, le presentazioni dei libri sono state sospese, ai matrimoni e ai funerali possono partecipare soltanto i parenti stretti, ma ai cocktail è stata garantita una speciale dispensa. Mai come oggi lo slogan della «Milano da bere» appare una profezia, la dimostrazione che in questi anni la città si è così eccitata per la propria modernità e ricchezza, dalla fatica del lavoro e dal suo contraltare, il bisogno del divertimento, da ritenersi più forte della natura, da pensare di non potersi, né doversi, fermare.

Piazza del Duomo è più vuota del solito. Soprattutto, c’è meno voglia di farsi selfie. I negozi in Galleria sono aperti, nonostante il divieto nei giorni festivi. Due giovani soldati meridionali in pattuglia parlano tra loro, non si può mica pretendere, dicono, bisogna essere elastici. Sembrano frastornati, come tutti, o almeno come molti, i più civili. La cosa più strana in questi giorni in cui tutto appare ribaltato – l’epidemia è scoppiata nei giorni del carnevale ambrosiano, istituito in ritardo rispetto al resto d’Italia per via di un’altra pestilenza – è stato vedere che i meno propensi a fidarsi di medici e scienziati sono stati quelli che, fino al giorno prima, si erano presentati come difensori della cultura e della scienza.

In piazza della Scala, di fronte al palazzo del sindaco, due bambine bionde e straniere giocano, saltando su e giù da una panchina. Il padre e la madre parlano sottovoce in una lingua sconosciuta, potrebbero essere lettoni. Hanno un’espressione sperduta, probabilmente si sentono intrappolati e vogliono capire se, quando e come potranno tornare a casa. Nella notte, quando si è diffusa la prima bozza del decreto, la Stazione Centrale è stata presa d’assalto da persone in fuga dalla città che le aveva accolte per portare il virus altrove. Perché una cosa è chiara, anche se nessuno la dice: la quarantena non serve a proteggere le zone colpite, ma a rallentare il contagio in altre parti del Paese.

È domenica, ma nella chiesa di San Giuseppe in via Verdi, a 400 metri da casa Manzoni, non si può tener messa. Sugli inginocchiatoi della prima fila due donne stanno pregando. Il messale sul leggio è aperto sull’Esodo. Un manifesto annuncia per l’indomani una novena al termine della quale ci sarà il bacio alla reliquia del santo. Chiedo al sagrestano, un signore anziano probabilmente di Napoli che sta accendendo i lumini, se la reliquia sarà baciata davvero. Mi risponde scuotendo la testa che non lo sa, non sa niente. Adesso c’è più gente per strada. Sui social lo slogan #milanononsiferma è in declino, rimpiazzato via via da #iorestoacasa. È l’8 marzo, non ho visto mimose.

Giacomo Papi

Giacomo Papi è nato a Milano nel 1968. Il suo ultimo romanzo si intitola Happydemia, quello precedente Il censimento dei radical chic. Qui la lista dei suoi articoli sui libri e sull’editoria.