Milano smarrita

Da qualche giorno si susseguono lai di vario tenore accomunati da un filo rosso che fa più o meno così: Milano non merita di essere messa nel mirino per la disfatta causata dal coronavirus.

Ne cito tre ma se ne leggono e sentono molti sulla stessa falsariga.
Mercoledì 15 aprile, ospite a “Otto e mezzo” da Lilli Gruber, Beppe Severgnini ha detto che tanta acrimonia nei confronti di Milano e della Lombardia, evidentemente, è figlia dell’invidia che di solito si prova nei confronti dei primi della classe quando anch’essi inciampano.

Venerdì 17 aprile, sul Corriere della sera, Marco Imarisio ha scritto che «s’avanza da più parti una sottile forma di revanscismo nei confronti della supposta grandeur lombardo-milanese. Le colpe dell’attuale classe dirigente regionale, presente e passata, diventano quasi un pretesto ideologico per presentare il conto, mescolandole a una sorta di implicito “ve la siete cercata” che accusa gli abitanti di questa terra di aver seguito esclusivamente la religione del profitto, tutti accecati da una visione priva di ogni cultura che non fosse quella dei danè».

Sempre venerdì 17 aprile, su Repubblica-Milano, Franco Bolelli apriva il suo pezzo così: «E adesso tanti sfoderano quel sogghigno compiaciuto che suona “che soddisfazione vedere il senso di superiorità di Milano andare in frantumi!” Bravi, divertitevi. Ma lasciatevi dire che durerà poco. Perché quel senso di superiorità è certamente sbagliato, ma nasce da risultati molto, molto concreti che presto torneranno a cantare».

Diciamolo pure subito: trattasi di un “vittimismo” fuori luogo.

Lo ha fatto intendere molto bene, sabato 18 aprile su Repubblica, Michele Serra, sottolineando come non abbia senso dire che:

«non esiste un nesso tra la cultura dello sviluppo ad ogni costo (ad ogni costo!) e la cecità che non una ma dieci inchieste giornalistiche hanno messo a fuoco esaminando i giorni, fatali, nei quali l’idea di interrompere la produzione è parsa, a confindustriali e padroncini, e probabilmente anche a molti salariati, peggio della peggiore delle stragi. Qualcosa di inconcepibile, che avrebbe messo fine a una corsa da sempre concepita come infinita… E il progressivo, inesorabile rimangiarsi il welfare e il concetto di “bene pubblico”, negli ultimi trent’anni in favore di un furibondo aziendalismo, trasformando in una voce di bilancio tutto, ma proprio tutto (la salute, l’acqua, l’istruzione, la vecchiaia) ha a che fare oppure no con la monocultura del profitto che ha dettato il ritmo dello sviluppo in modo così diffuso e direi condiviso, dall’ultimo piano dei grattacieli al più remoto dei capannoni, dalle poltrone dei consigli di amministrazione al tornio e al muletto?».

Più chiaro di così?

Tuttavia, a differenza di Serra che in coda al suo articolo afferma che i milanesi e i lombardi non devono offendersi se qualcuno si aspetta proprio da loro qualche indicazione forte per ripartire, io non credo che ciò sarà possibile. Cioè che, perlomeno da Milano, possa arrivare qualche contributo di “visione” particolarmente inedito e lungimirante su come ripensare la nostra convivenza.
Non ci credo per via di un duplice fattore connesso con l’essenza stessa di Milano: la velocità e l’azione.
La pandemia da coronavirus ha infatti messo in crisi proprio due pilastri identitari di Milano, la velocità e l’agire sempre e comunque, spesso a prescindere da un pensiero che lo contemperi. Per questo ritengo che non ne verrà fuori facilmente. Mi spiego.

Sulla vita veloce di Milano penso ci sia poco da soffermarsi, è il biglietto da visita che accoglie chiunque capiti sotto al Duomo. E se qualcuno in passato ha osato provare a suggerire di rallentare è stato subito redarguito.
Ne sa qualcosa il sindaco Sala, pur autore di una narrazione fin troppo apologetica della città, che tre anni fa aveva avvertito il bisogno di dichiarare che forse bisognava chiedersi se non fosse il caso che la città rallentasse un po’. Niente di trascendentale, sia chiaro, semplicemente si era recato a Parigi a un summit sull’ambiente con altri undici sindaci di altrettante metropoli internazionali e aveva convenuto che per contrastare l’emergenza smog fosse necessario ripensare i tempi della città, agevolare ulteriormente l’uso dei mezzi pubblici, delle biciclette e del car sharing.

Non l’avesse mai detto. In seguito all’intervista al Corriere della sera del 24 ottobre 2017 in cui faceva simili affermazioni e sottolineava che il suo pensiero politico fosse riassumibile nell’esigenza di «trovare forme per riumanizzare la città che non deve solo correre per 24 ore di fila», gli piovvero addosso critiche da ogni parte. Al punto che quattro giorni dopo sentì l’esigenza di intervenire nuovamente sulla questione, con un articolo pubblicato sempre sul Corriere della sera, per ribadire che «la velocità di Milano non poteva essere messa in discussione neanche per un attimo, se con questo si intende la sua capacità di essere pronta e reattiva alle sollecitazioni che vengono dal mondo che la circonda e al quale vuole intensamente appartenere. In molti però sono legati ancora a un’idea di velocità figlia di un progresso che è stato proprio del secolo scorso». Aggiungeva poi Sala che quando parlava di rallentamenti si riferiva essenzialmente ai temi dell’ambiente e più in generale dello sviluppo sostenibile.

Tra le reazioni più critiche contro Sala ce ne fu una proprio dello scrittore Franco Bolelli poc’anzi citato:

«Sindaco Sala, questa città non deve affatto imparare a rallentare. Anzi, semmai Milano dovrebbe imparare a essere davvero veloce. No, non per venerare il culto della velocità, ma proprio per migliorare la qualità della nostra vita. Perché la vera velocità – scelte veloci, decisioni veloci, riflessi veloci – ci fa guadagnare tempo, la vera velocità valorizza il nostro tempo e – idealmente – ci permette di dedicarlo a ciò che più ci appassiona… L’idea che la qualità della vita migliori se si rallenta è novecentesca, non tiene cioè conto di quanto in questo mondo la “misura d’uomo” sia profondamente mutata. Se c’è qualcosa a cui noi non possiamo più rinunciare è l’istantaneità: noi giustamente vogliamo wifi istantaneo; spostamenti rapidi, niente rallentamenti burocratici, niente lentezze in nessuna situazione. È in questo senso che noi certamente possiamo e dobbiamo trovare quotidiane oasi di decompressione e disconnessione, ma proprio per potercele permettere noi dobbiamo ottimizzare i tempi della nostra vita, non rallentarli».

Si trattava di un’intemerata lanciata, manco a dirlo, a una velocità talmente elevata da impedire evidentemente all’autore di tener conto di alcune delle precisazioni già fatte da Sala. Il pezzo da cui sono tratti questi stralci apparve infatti su Repubblica-Milano il 30 ottobre 2017, due giorni dopo cioè che Sala aveva già puntualizzato sul Corriere della sera che egli non intendeva affatto riferirsi alla velocità di tipo novecentesco. Quindi risultava inutilmente ripetitiva la frase: «L’idea che la qualità della vita migliori se si rallenta è novecentesca».

Ma a parte questo rilievo cronologico è evidente che oggi un approccio simile all’organizzazione della vita, con tutti gli accorgimenti post covid19 che dovremo rispettare, risulti decisamente improponibile. Adesso bisogna rallentare, altro che velocità, come argomenta bene il sociologo Franco Cassano in un libro il cui titolo “Modernizzare stanca” probabilmente deve suonare come un’eresia per molti milanesi:

«Ogni sguardo veramente autonomo sul nostro tempo deve riuscire a evadere dall’etnocentrismo della velocità, che pensa il mondo come lo farebbe un tachimetro, e partire dall’inventario delle forme di esperienza che esso mette fuori-legge e getta fuori dai finestrini. La velocità è come una linea retta, la distanza più breve tra due luoghi e due persone: ci spinge a considerare inutili e noiose tutte le strade che conoscono la salita, le curve e la sosta, il mutare delle prospettive… La lentezza, con la sua fantasia e i suoi spazi per la meditazione e l’elaborazione, è un giudice lucido e durissimo dell’ingordigia della velocità».

Penso perciò che stavolta Milano avrà molto più da imparare che da insegnare. Ha voglia il sindaco Sala (che proprio per la smania della velocità di dire o fare comunque qualcosa prima degli altri ha inanellato una serie di brutte figure facilmente evitabili come quella di rilanciare il video di #milanononsiferma o annunciare in diretta al tg1 del 20 marzo che avrebbe chiuso i tabacchini, soluzione poi mai adottata) a ribadire in ogni occasione che «la ripartenza dell’Italia non può che avvenire dalla ripartenza della sua capitale economica e sociale, Milano».
Suvvia sindaco, è finito l’incanto, adesso è il momento dell’umiltà. Lo ha riconosciuto persino il finanziere Francesco Micheli che di Milano conosce tutti gli ambienti economici, politici, culturali: «Si, c’è stato anche un certo spirito di onnipotenza, eravamo attrattivi, guardati con attenzione e invidia nel mondo, nel pieno di un’età dell’oro simile all’Atene di Pericle. Di colpo ci siamo trovati ad affrontare l’ala di un turbine negativo che all’inizio non abbiamo neanche voluto considerare».

Il secondo fattore andato in crisi è la modalità di agire sempre e comunque con la “scusa” della concretezza. In ogni conversazione, confronto, dibattito pubblico e privato, dopo un paio di frasi di circostanza subito fa capolino lei, la parolina magica. Che in sé potrebbe anche rappresentare una buona qualità. C’è un problema? La concretezza implica che si cerchi subito una soluzione percorribile. Ma quando sull’altare di questa fantomatica concretezza si sacrifica ogni forma di pensiero, ancor più se pensiero critico, perché tutto deve correre, tutto deve procedere a ritmi forsennati allora la concretezza diventa un problema serio. A che serve il fare se non è preceduto da un pensiero, se non sai a cosa ti serve tutto quel fare? Anzi, così il fare si traduce in un non scegliere perché c’è sempre qualcun altro o qualcos’altro (a cominciare dagli eventi che non sai comprendere e dominare) che ha scelto per te e ti chiede solo di eseguire. Accade un po’ quel che Kierkegaard chiarisce con la felice metafora del capitano che, non decidendo per tempo, fa andare a sbattere la sua nave:

«Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità e che così è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello. Così anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha più libertà di scelta, non perché ha scelto ma perché non l’ha fatto, il che si può esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso».

Se dietro all’azione concreta non c’è prima un pensiero che la immagini, ne definisca i contorni, ne valuti l’opportunità, l’efficacia, l’effettiva significatività allora tutto può tradursi in una pericolosa e irresponsabile corsa verso il baratro. Esistenziale innanzitutto. D’accordo cantare in O mia bela Madunina che qui se stai mai coi man in man ma se poi a furia di non stare mai con le mani in mano, di ricondurre tutto a “concretezza” (e danè) si finisce con il mortificare i rapporti umani, i sentimenti, l’amicizia, tutto quel di “intangibile” che contribuisce in modo determinante a dare senso alla vita allora no, allora non va più bene.

Coglieva nel segno l’economista della Bocconi Severino Salvemini quando già un paio di anni fa scriveva (su Repubblica-Milano del 20 febbraio 2018) che:

«Milano e la sua tradizione meneghina hanno una loro specifica predisposizione all’azione: si fa e poi si riflette; si agisce prima di aver soppesato tutte le alternative; si corre e non ci si sofferma mai. Pragmaticamente l’azione precede il pensiero. Anche nella fruizione culturale, correndo il rischio di appiattirsi su superficialità e facili certezze e di rasentare a volte il riduzionismo troppo schematico. In poche parole è una condanna a non farsi tentare troppo dalla complessità».

Ma fuggi dal pensiero e dalla complessità oggi, fuggi domani, semplifica oggi, semplifica domani, alla fine i nodi vengono al pettine. E oggi a Milano sono arrivati tutti.
Per questo sono dell’avviso che la città non si riprenderà tanto presto (o forse dovrei dire: tanto velocemente). Perché dovrà cominciare pazientemente a scioglierli uno ad uno. E ciò non potrà che farle bene.

Francesco Maggio

Economista e giornalista, già ricercatore a Nomisma e a lungo collaboratore de Il Sole24Ore, da molti anni si occupa dei rapporti tra etica, economia e società civile. Tra i suoi libri: I soldi buoni, Nonprofit (con G.P. Barbetta), Economia inceppata, La bella economia, Bluff economy. Email: f.maggio.fm@gmail.com