La lettera di Marek Halter a Putin

Il 31 maggio, su Les Echos, il principale giornale economico finanziario francese, lo scrittore Marel Halter (1936) ha scritto un’accorata lettera a Vladimir Vladimirovič Putin (1952), destinatario negli ultimi mesi di molte missive e telefonate da tutto l’Occidente, purtroppo del tutto inutili e senza effetti. La lettera è stata pubblicata in italiano da La Stampa il 4 giugno.

Marek Halter è nato a Varsavia da una madre poetessa yiddish e un padre tipografo. Nel 1940 i suoi genitori, con il piccolo Halter e la sorella Berenice, furono rinchiusi dai nazisti nel ghetto di Varsavia da dove avventurosamente riuscirono a fuggire per rifugiarsi in Ucraina, che nel frattempo, in base al Patto Molotov-Ribbentrop, era stata invasa dall’Unione Sovietica. Là furono arrestati dai militari russi e trasferiti a Mosca. Dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania (il 22 giugno 1941), gli Halter vennero evacuati a Kokánd (Qo’qon), una città di 300.000 abitanti dell’Uzbekistan, che dovette accogliere un milione di profughi. Le condizioni di vita erano pessime: la sorella morì di fame e i genitori si ammalarono. Nella lettera a Putin, Marek ricorda di sé stesso: “Ero scheletrico, con il cranio rasato, ero un giovane uomo senza legge, un ‘teppista’ che aggrediva gli sconosciuti per salvare i genitori ed esprimere la rabbia in cui il potere l’aveva rinchiuso”. Nel 1946 gli Halter poterono tornare in Polonia. Nel 1950 Marek emigrò a Parigi dove iniziò a lavorare con il mimo Marcel Marceau e divenne un giornalista e scrittore. Da allora si è molto impegnato per la pace in Medio Oriente, contro le invasioni dell’Afghanistan e per la causa dei dissidenti russi. I suoi numerosi libri sono stati quasi tutti pubblicati in italiano dalle edizioni Spirali e sono, purtroppo, difficilmente reperibili (salvo l’ultimo: Il cabalista di Praga, Newton Compton, 2012). Nel 1991 ha creato in Russia due centri universitari francesi, dei quali è presidente: uno a Mosca e l’altro a San Pietroburgo.

Halter inizia la sua lettera facendo riferimento a una trentennale conoscenza, e stima reciproca, con Putin, al quale ha fatto anche diverse interviste: “Tre mesi fa ho festeggiato il mio 86° compleanno in Russia, su iniziativa dell’Università statale di Mosca. Il suo consigliere Mikhail Shvydkoy mi ha trasmesso ufficialmente i suoi auguri. Una delle sue frasi ha attirato la mia attenzione: ‘Chi non rimpiange la scomparsa dell’Unione Sovietica, che seppe riunire 73 etnie intorno a un unico sogno, non ha cuore. Ma chi vorrebbe riconquistarla non ha cervello’. E così, convinto dell’esito pacifico della crisi, ho dichiarato ai media che la guerra tra Russia e Ucraina non ci sarebbe stata. Ho commesso un errore.”
È certamente interessante la frase di Putin: “Chi vorrebbe riconquistare (la vecchia Unione Sovietica) non ha cervello”. Alla luce dei fatti successivi sembrerebbe autoironica, ma in realtà dimostra ancora una volta quante bugie dica, e continui a dire, il capo del Cremlino. Probabilmente anche a sé stesso.

Per catturare la benevolenza di Putin, e convincerlo a fare un primo passo di pace, Halter concede che l’Occidente e la NATO stavano minacciando la Russia e che l’“operazione militare speciale” possa essere di fatto una necessaria “guerra preventiva”. Come alcuni esperti intellettuali nostrani, Halter è convinto che quello che sta accadendo sia una macchinazione degli Stati Uniti, a scapito dell’Europa, della Russia e persino dell’Ucraina (che però non si comprende perché continui a chiedere armi per potersi difendere e non vedere il proprio paese cancellato!): “Non cada nella rete in cui gli americani cercano di intrappolarla. Oggi, infatti, sono gli americani a controllare il corso degli eventi e a impedire al presidente Zelensky di prendere in considerazione, come era pronto a fare finora, una soluzione diversa per questo conflitto rispetto al fatto di portarla avanti a solo vantaggio degli ucraini. Eliminando l’Europa come forza politico-economica indipendente, tornando a incarnare quel ruolo di ‘grande fratello’ unico modello a fronte dei sistemi autoritari che regnano sul 40 % della popolazione mondiale”.

Parlando per esperienza personale, Halter afferma giustamente che è sbagliato considerare gli ucraini un popolo da “denazificare” (facendo riferimento a gravi episodi di antisemitismo e collaborazionismo accaduti durante la Seconda Guerra M0ndiale): “Quell’episodio non fa di tutti gli ucraini un popolo nazista. E, in ogni caso, le azioni del passato non giustificano le bombe sganciate oggi sulle loro città”. Ma purtroppo sembra non ricordare la favola di Esopo (ripresa anche da Fedro e Jean de la Fontaine), Il lupo e l’agnello: il più forte e aggressivo non ha bisogno di motivazioni vere per attaccare il più debole. Dopo cento giorni di massacri e distruzioni è chiaro che l’obbiettivo di Putin era, e forse è ancora (nonostante le sconfitte subite e ben 10 generali ammazzati), cancellare l’Ucraina come stato indipendente e filo-occidentale, annullare gli effetti e della “rivoluzione arancione del 2014” e portare subito a compimento il fomentato tentativo di secessione delle regioni russofone del Donbass. Un obbiettivo che Putin aveva in mente sin da quando è salito al potere (sistemando con la violenza, come ha descritto bene la giornalista assassinata Anna Politkovskaja, la questione dell’indipendenza della Cecenia), è la ricostruzione dell’impero russo-sovietico. Nel discorso del 20 febbraio, prima dell’invasione dell’Ucraina, fece esplicito riferimento al fatto che anche la Moldavia, la Georgia e i paesi baltici (e qualche paese dell’ex Patto di Varsavia) sarebbero dovuti tornare nell’orbita russa (la fine dell’Urss, lo ha ribadito Putin anche facendo gli auguri a Halter, è stata “la più grande catastrofe del XX secolo”). Halter avrebbe dovuto scrivere che in questo modo Putin sta portando alla rovina, politica ed economica, il proprio paese e il suo popolo, isolandolo dal mondo, con costi umani e culturali altissimi: è ricominciata la diaspora dei giovani talenti russi e la fuga delle aziende e delle istituzioni occidentali. La Russia è tornata a far paura e paesi tradizionalmente neutrali (Finlandia, Svezia, Danimarca) ora entreranno a far parte della NATO.
Halter ricorda a Putin le soluzioni diplomatiche del passato, come quella della crisi dei missili a Cuba. Fa finta di non sapere di star scrivendo a un uomo politico che, in un contesto mondiale del tutto diverso da quello dell’equilibrio della deterrenza durante la “guerra fredda”, decide in solitudine, ossessionato dall’essere circondato e minacciato e desideroso a ogni costo di tornare ad avere una posizione dominante. In queste condizioni, la diplomazia occidentale continua a fallire tutti i tentativi, scontrandosi contro il muro di un aggressore violento. Nella conclusione della sua lettera, coerentemente con lo spirito pacifista che lo ha sempre animato, Halter dice a Putin che sta pensando di organizzare, con i rappresentanti di diverse confessioni religiose (cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, ebrei, buddisti), una Carovana della Pace che raggiunga, dopo aver percorso migliaia di chilometri, prima Mosca e poi Kyiv. Intanto Putin ha ricominciato a bombardare proprio la capitale dell’Ucraina.

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).