Segni di riconoscimento

L’altro giorno, due ragazzine di 15 anni hanno aggredito, insultato, preso a calci, colpito con sputi un dodicenne al parco Altobelli di Venturina Terme per il fatto che è ebreo.

“Per molti in Italia c’è un antisemitismo che si potrebbe definire ‘a bassa intensità’ che è però pervasivo e continuamente messo in circolazione. Un antisemitismo ‘a bassa intensità’ non significa un antisemitismo senza conseguenze: è proprio il fatto che diventa senso comune, che lo rende pericoloso perché finisce per derubricare atti di antisemitismo e razzismo per ‘cose normali’, non intenzionali, innocue, scherzi senza conseguenze”.

È quanto si legge nella Relazione annuale sull’antisemitismo in Italia a cura dell’Osservatorio Antisemitismo della Fondazione del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea.

Una delle caratteristiche della nostra epoca è di vedere confusamente i pericoli quando stanno arrivando. La civiltà, in Europa come negli Stati Uniti, ha indebolito il naturale istinto di stare in guardia e prevedere. E questo è purtroppo uno degli aspetti che Sigmund Freud non prese bene in considerazione nel suo Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio nella civiltà, 1929). Siamo sempre meno capaci di intuire ciò che sta cambiando in peggio e metterà in discussione la nostra incolumità.

Il regista svedese Ingmar Bergman, per riflettere sulle origini del nazismo, raccontò la storia, ambientata a Berlino nel 1923, di un trapezista ebreo americano il cui fratello si spara lasciando una lettera con scritto: “Un flagello sta per abbattersi su di noi”. Il film si intitolava significativamente L’uovo del serpente (1977). L’uovo del serpente è trasparente e permette di intuire cosa sia quella virgoletta, apparentemente innocua, che sta maturando al suo interno. Immaginando il rettile si potrebbe impedire che esca fuori e faccia del male.

Questo era il senso che Primo Levi dava al suo doloroso rinvangare il passato e alla sua lucida testimonianza. Lo ribadì con forza nel suo “testamento”, I sommersi e i salvati (1986): “Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale e inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura muove oggi al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito e osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire” (p.164). Raccontando e comprendendo che cosa accadde si aiutano i più giovani a capire in anticipo il Male in arrivo. Se si sa ciò che è avvenuto, e come iniziò, forse non si ripeterà.

Alcuni anni fa, a Marsiglia, un quindicenne turco di origini curde aggredì con un machete un insegnante che portava la kippah. “Ho agito per Allah e per lo stato islamico”, dichiarò l’attentatore, fermato dalla polizia. Dopo questo fatto, per comprensibili motivi (da anni in Francia si susseguono gli attacchi agli ebrei), il Concistoro israelitico di Marsiglia invitò a non indossare la kippah, “in attesa di giorni migliori”. Non tutti però trassero queste conseguenze. Giustamente, orgogliosamente e coraggiosamente, il gran rabbino di Francia Haïm Korsia, assieme a molti altri, disse: “Continueremo a portarla”.

La kippah è, com’è noto, il copricapo usato obbligatoriamente dagli ebrei osservanti maschi nei luoghi di culto. I più religiosi la indossano anche durante la vita quotidiana. Ci si copre il capo in segno di rispetto verso Dio, e a tale scopo un qualsiasi copricapo è adatto. Il Talmud dice: “Copriti la testa in modo che il timore del cielo sia su di te” (Shabbat 156b). Inevitabilmente è un segno di riconoscimento, ma un segno di riconoscimento volontario. Storicamente invece veniva imposto all’ebreo di essere ben riconoscibile, grazie al colore GIALLO. La città lituana di Kaunas aveva, come Vilnius, una grande comunità ebraica. Gli ebrei vi erano arrivati, nel XIV secolo, scacciati dall’Ungheria e dalla Germania. Per molto tempo fu loro proibito di alloggiare entro la cintura daziaria della città e dovettero stabilirsi  dall’altra parte del fiume Neris. Quello divenne il Ghetto ebraico e da lì, all’alba, commercianti e artigiani si muovevano per andare a lavorare in città. Oltre a questo, secondo lo statuto lituano del 1566 si proibiva agli ebrei: “di presentarsi in pubblico lussuosamente, con catene d’oro; e alle loro donne di coprirsi d’oro e d’argento; come pure di portare sulle armi ornamenti di oro e d’argento; debbono i loro vestiti essere uniformi, gialli i berretti e i cappelli, e le loro donne di stoffa gialla ricoperte, per modo da essere, dai cristiani, riconosciute”.

Anche in un tragico passato, non tanto lontano, ci sono stati segni che sono stati imposti. Come la  Stella di David (Maghen David), spesso di colore giallo, che venne utilizzata dai nazisti come metodo di identificazione degli ebrei, e venne chiamata la Stella Ebrea. L’obbligo di portare la Stella di David, con la parola “Jude” scritta sopra, venne esteso a tutti gli ebrei al di sopra dei sei anni nelle zone occupate dalla Germania dal 6 settembre 1941. Così venne esteso ad altri paesi l’uso introdotto già nel 1939 nella Polonia occupata dove gli ebrei vennero costretti a portare una fascia sul braccio con una Stella di Davide sopra, come anche una pezza davanti e dietro i propri indumenti. Si costrinsero in seguito anche gli internati nei campi di concentramento a portare simili distintivi di riconoscimento.

Il pedagogo e scrittore ebreo polacco Janusz Korczak (1878-1942), quando lo rinchiusero, assieme agli orfani della sua scuola, nel Ghetto di Varsavia, si rifiutò di portare quella stella che “lo degradava a un animale marchiato”. Lui era un grande uomo e il suo gesto non mette assolutamente in cattiva luce gli altri che, per umanissima paura, ubbidirono e accettarono di portarla. Rifiutarsi di portare la Stella era, in quella situazione, molto pericoloso. Ma immaginiamo cosa sarebbe successo se anche molti non ebrei se la fossero messa addosso…

Il re Cristiano X di Danimarca, in solidarietà con gli ebrei del suo paese ai quali i tedeschi imponevano di indossare la Stella di David, minacciò di appuntarla anche lui sulla sua giacca. Così come rifiutò di esporre la bandiera nazista sul castello di Christiansborg, sede del Parlamento, durante l’occupazione. Il re mandò a chiamare un generale tedesco e gli ordinò di rimuovere il vessillo. Quando il generale si rifiutò, Cristiano dichiarò: “Un soldato danese lo farà”. L’ufficiale tedesco osservò che un tale soldato sarebbe stato subito ucciso, ma il re rispose: “Non penso, perché io sarei quel soldato”. Allora il generale ordinò la rimozione della bandiera.

 

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).