Ricordo di Marek Edelman

Undici anni fa moriva a Varsavia, all’età di 87 anni, Marek Edelman, uno dei pochi sopravvissuti dell’eroica insurrezione del Ghetto di Varsavia, nella primavera del 1943: uomini e donne che, certi di essere votati allo sterminio per mano dei nazisti, decisero di morire con le armi in pugno, mettendo in scacco per parecchie settimane l’esercito nemico e dando un segnale di coraggio e dignità a tutta l’Europa.

Edelman fu uno dei capi dell’insurrezione. Nel dopoguerra rimase in Polonia facendo il cardiologo, nonostante la campagna antisemita delle autorità comuniste nel 1968 che lo cacciò dall’Ospedale di Łódź e l’internamento nella prigione di Leczyca, dopo il colpo di stato del 1981). Spiegava che: «Il mio compito è quello di fare la guardia alle tombe del mio popolo».

Una vita sempre all’opposizione. Continuò caparbiamente e coerentemente le sue battaglie e testimonianze. Socialista in gioventù (faceva parte del partito socialista ebraico, “Bund”), negli anni Settanta fu tra i primi a dar vita al movimento dei dissidenti e poi fu uno dei dirigenti di Solidarność. Si è sempre battuto per tutti gli oppressi: negli anni Novanta, fece suo lo slogan “Sarajevo come il Ghetto di Varsavia” e, nonostante l’età vanzata, si recò laggiù varie volte con i camion di aiuti.

Oggi l’Istituto storico ebraico di Varsavia (Żydowski Instytut Historycny), lo ha ricordato con le parole che pronunciò durante un incontro che si tenne a Cracovia il 10 e l’11 giugno 1995:

«Soprattutto bisogna tenere a mente una cosa: cosa è stato l’Olocausto. Non è vero che sia stata una questione che ha riguardato solo gli ebrei. Non è vero neppure che ha riguardato soltanto qualche sciacallo. Qualche centinaio di loro. Qualche migliaio. E non è neppure vero che che sia stato un affare di cento o duecento mila tedeschi, che presero parte di persona in questi massacri. No: è una questione che riguarda l’Europa e la civiltà europea, che ha prodotto le fabbriche della morte.

L’Olocausto è la sconfitta della civiltà. E purtroppo questa sconfitta non è terminata nel 1945. Bisogna ricordarlo. Tutti debbono ricordarlo (…). Abbiamo sempre la tendenza a voltare la testa dall’altra parte. Accadeva così: un ebreo fuggiva dal Ghetto, c’era un sacco di gente per strada, e tra loro due sciacalli. Erano solo due e soltanto due facevano quello che facevano (consegnavano per denaro gli ebrei ai tedeschi o minacciavano di farlo per farsi pagare, NDT). Gli altri si voltavano dall’altra parte e non volevano vedere. Perché era una cosa spiacevole. Ma tuttavia ne erano testimoni. E il testimone passivo è un complice. Nelle situazioni estreme la passività è un crimine. Nelle situazioni estreme nemmeno la paura può essere una giustificazione, e la passività è davvero un crimine.

Durante la guerra passivo fu tutto il mondo. E non soltanto l’Europa. Passiva fu la Gran Bretagna, passiva fu l’America: anche se non dovevano aver paura. Roosevelt considerò l’Olocausto come il costo della guerra pagato dagli ebrei. Gli stessi costi pagati dai francesi o dai russi. Sostenne che come la guerra fosse finita, non si sarebbero più ammazzati gli ebrei. Ma non fu la stessa cosa. Quelle fabbriche della morte, dove si compivano assassinii di massa, portarono al disprezzo per la vita umana.

E quel disprezzo è durato sino a oggi. I migliori studenti dell’università francese lo hanno messo in atto in Cambogia. La stessa cosa è avvenuta in Ruanda. In questo caso, per fortuna, la Francia si è opposta ai massacri inviando il suo esercito per difendere mezzo milione di persone in Ruanda. È la prima volta che è accaduto qualcosa del genere. Occorre ricordare che il primo peccato di abbandono fu quando, nel 1935, Hitler si annesse il Bacino della Saar. Quello fu l’inizio della debolezza, la paura del fascismo, la paura di un potere forte. Se oggi non combattiamo contro questa paura, continueremo a subire il terrorismo e i genocidi. Bisogna tenerlo a mente».

Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).