Il laboratorio di Wuhan

Nella serata di giovedì 30 aprile, Donald Trump è tornato a ipotizzare che il coronavirus sia stato prodotto da un laboratorio di Wuhan: «Lì deve essere successo qualcosa di terribile. Può essere stato un errore, qualcosa che si è sviluppato inavvertitamente, oppure qualcuno lo ha fatto di proposito». Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, quando a Trump è stato chiesto se avesse visto prove in grado di fornirgli quella che lui ha definito «un alto grado di sicurezza» riguardo l’origine del virus nell’Istituto di virologia di Wuhan, il presidente ha risposto «sì, sì, le ho viste», precisando però di «non poter parlare oltre».

Il «Coronavirus» si è manifestato in una città industriale cinese che non molti avevano sentito nominare (nonostante abbia 11 milioni di abitanti e sia capoluogo di una provincia che ne ha 60 milioni): Wuhan. Città anche esteticamente malata: campione dell’orrore architettonico, con pretenziosi grattacieli e bizzarri palazzi che gareggiano con Disneyland o Gotham City.

La comunità scientifica ritiene che lo scenario più probabile prefiguri l’origine naturale del virus, passato dagli animali agli uomini. E anche l’Ufficio della DNI, la Direzione Nazionale dell’Intelligence esclude che il Coronavirus sia stato «costruito» tra le provette: le agenzie federali, si legge in una nota, «concordano con il largo consenso scientifico riguardo al fatto che il virus che causa Covid-19 non è stato fabbricato dall’uomo o geneticamente modificato». Già nel 2012, il divulgatore scientifico David Quammen aveva scritto, nel libro Spillover (Adelphi 2014), che la futura grande pandemia («the Next Big One») sarebbe stata causata da un virus zoonotico trasmesso da un animale selvatico, verosimilmente un pipistrello, e sarebbe venuto a contatto con l’uomo attraverso un wet market in Cina.

Anche in questo caso pare ormai certo che il virus sia partito da un pipistrello catturato e tenuto in gabbia accanto ad altri animali in vendita al Mercato di Huanan (Wuhan). Molto probabilmente il virus di quel pipistrello è saltato, attraverso un morso, in un altro animale, forse un pangolino (o formichiere squamoso), un ospite-serbatoio in cui è avvenuta la prima mutazione. E infine, quando questo animale è stato mangiato da qualche buongustaio, il virus è stato trasmesso all’uomo, dando via al contagio.

L’idea che il «Coronavirus» sia una macchinazione cinese o l’effetto di un complotto globalista, fomentato dallo «Stato profondo» e dai sionisti (che coinvolge tutti: da George Soros a Bill Gates), si è fatta strada non solo nei siti gestiti da rappresentanti dell’estrema destra, ma anche nelle piattaforme largamente utilizzate dai paranoici. Alcuni poggiano le proprie teorie complottistiche sull’effettiva esistenza di un Laboratorio franco-cinese per lo studio dei virus patogeni con sede proprio a Wuhan. Nel 2017, il Primo Ministro francese Bernard Cazeneuve inaugurò il Laboratorio p4 dicendo: «Sono felice di trovarmi a Wuhan, che alcuni chiamano la “piccola Francia”, cuore della cooperazione franco-cinese». La virologa Shi Zhengli ha sostenuto che, già il 7 gennaio, gli scienziati del suo Istituto-laboratorio erano assolutamente certi che tanta gente si stesse ammalando a causa di un nuovo virus «che è il castigo che subiamo per le nostre barbare abitudini alimentari». Il governatore del Veneto Luca Zaia sottoscriverebbe questa affermazione.

Donald Trump deve essersi fatto forse suggestionare, oltre che dal suo odio per tutto ciò che è cinese, dalla letteratura. Infatti, quarant’anni fa, lo scrittore americano Dean Ray Koontz, nel romanzo Abisso, raccontò di una malattia letale creata in un laboratorio cinese, proprio a Wuhan. Il protagonista è uno scienziato di nome Li Chen che fugge negli Stati Uniti con una copia su dischetto dell’«arma biologica cinese più importante del decennio»: un’arma battezzata «Wuhan-400» proprio perché viene sviluppata nei laboratori vicini alla metropoli cinese ed è «il quattrocentesimo ceppo vitale di microrganismi creato in quel centro di ricerca». Lo scrittore definisce Wuhan-400 «un’arma perfetta» perché «colpisce solo gli esseri umani». E ancora, nel suo romanzo, Koonts parla di «una grave polmonite che intorno al 2020 si diffonderà in tutto il mondo, in grado di resistere a tutte le cure conosciute». Koontz ha pubblicato più versioni del suo romanzo cambiandone i dettagli. In quella originale, uscita nel 1981, non si parla di Wuhan ma della città sovietica di Gorki, e del virus «Gorki-400». Divenne Wuhan nell’edizione del 1996, quando l’Unione sovietica non esisteva più e «la Cina sembrava una fonte più credibile».

Sono immaginazioni quelle che sostengono che laggiù, nel Laboratorio a Wuhan, si sia “costruito” questo potente virus e che sia in qualche modo scappato fuori dalle provette infettando la città e il mondo. Questa tesi toglierebbe la responsabilità al Mercato di Wuhan, dove il pipistrello morse il pangolino che poi un cinese mangiò. In quella “fiera dell’Est”, però, come si è visto bene dai documentari del «National Geographic», c’è una grande quantità di animali (serpenti, cani, uccelli, cinghiali, pennuti), molti ancora vivi, ammassati in gabbie e altri già preparati per esser cucinati, che hanno ormai sembianze che li rendono irriconoscibili. Per terra pozzanghere di sangue. Qualcosa di molto antico e assai impressionante.

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Francesco Cataluccio

Ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Ha curato le opere di Witold Gombrowicz e Bruno Schulz. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e oggi si occupa della Fondazione GARIWO-Foresta dei Giusti. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi 2004; nuova ed. ampliata: 2014); Vado a vedere se di là è meglio (Sellerio 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo 2010); Chernobyl (Sellerio 2011); L’ambaradan delle quisquiglie (Sellerio 2012); La memoria degli Uffizi (Sellerio 2013); In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande 2020); Non c’è nessuna Itaca. Viaggio in Lituania (Humboldt Books 2022).