Effetto Dagospia

Uno dei possibili effetti collaterali delle nuove norme sulla pubblicazione degli atti di indagini sarà il trasferimento su internet di informazioni altrimenti “a rischio sanzione”, una sorta di “effetto Dagospia” su larga scala. Gli addetti ai lavori conoscono bene la tecnica: un sito web raccoglie una voce e i giornali la riprendono da lì, dribblando quelle che sono le ordinarie procedure di verifica e di responsabilità in ordine alla notizia. Di questo meccanismo sono stati vittime, in passato, tanti esponenti del centrodestra e del centrosinistra. A memoria ricordiamo un ministro il cui nome fu collegato a un libretto scandalistico proprio da un post senza firma poi “rimbalzato” sui quotidiani. Il gossip anonimo al posto dell’informazione “certificata” dal nome e cognome di un giornalista e di un direttore: è questo che vogliamo? Ed è questo che moralizzerà la stampa italiana? Sono domande che, crediamo, i vertici del Pdl dovrebbero porsi in queste ore, anche al di là della mobilitazione sulla libertà di cronaca che sta coinvolgendo un pò tutte la stampa italiana contro le nuove norme sulle intercettazioni.

La questione va spiegata bene, perché contiene un certo margine di ambiguità. La Commissione Giustizia del Senato, emendando il testo sulle intercettazioni arrivato dalla Camera, ha cancellato il comma che consentiva esplicitamente di dare notizia “per riassunto” di atti giudiziari anche durante le indagini, prima del rinvio a giudizio dell’imputato. Per “atti” si intendono non solo le intercettazioni, ma anche gli interrogatori, le rogatorie, l’esito delle perquisizioni. L’eliminazione del “permesso di riassunto” non comporta automaticamente un divieto a pubblicare ma, evidentemente, indebolisce la posizione dei giornalisti e dei giornali. Non tutti “avranno il coraggio” di scrivere, e soprattutto non tutti gli editori sfideranno le notevolissime sanzioni previste per chi viola le nuove regole sulla riservatezza.

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Magari trent’anni fa dei “paletti” così avrebbero avuto un senso: ai tempi, per dirne una, di Antelope Kobbler o della P2, i giornali erano il principale mezzo di comunicazione politica e intimidirli con la prospettiva di maxi-multe avrebbe forse avuto un senso dal punto di vista del potere. Ma oggi la Rete ha cambiato tutto. Nemmeno l’Iran o la Cina riescono a controllare l’informazione come vorrebbero. Neanche Cuba può evitare che le cronache sgradite al regime abbiano libera circolazione sul web, che i dissidenti vengano intervistati, persino che i detenuti politici abbiano voce e scrivano libri pubblicati poi in Occidente. Non è più tempo di samisdatz, anzi: i meccanismi della comunicazione fanno sì che le informazioni “proibite” abbiano un valore e un appeal spesso superiore al peso effettivo dei loro contenuti. E il mondo libero incoraggia questa tendenza, sposa la libertà di informazione, accettandone gli effetti collaterali – inchieste scomode, talvolta calunnie e un costante contenzioso tra media e governi – come un pedaggio da pagare alla modernità.

L’America, che pure si illuse negli anni del maccartismo di poter controllare i media come controllava gli arsenali, qualche giorno fa ha varato una legge sulla libertà di stampa nel mondo dall’alto valore simbolico fin dal nome. L’iniziativa legislativa, firmata da Obama in una solenne cerimonia, si chiama Daniel Pearl Act, in omaggio al giornalista del Wall Street Journal rapito e ucciso nel 2002 in Pakistan, dove si trovava per realizzare un servizio sugli estremisti islamici. Secondo la nuova legge, il Dipartimento di Stato americano stilerà ogni anno una lista pubblica di tutte le nazioni del mondo dove viene violato il diritto alla cronaca e alla verità. Certificherà inoltre le eventuali corresponsabilità dei governi in queste violazioni e le azioni che verranno invece intraprese per proteggerli. «Con molta umiltà», ha detto Obama, «questa legge ci mette dalla parte dei giornalisti e della loro libertà».

Ora, a noi sembra inimmaginabile che in questo contesto l’Italia finisca tra i Paesi dove, per avere notizie su un’inchiesta o su uno scandalo prima che approdi all’eventuale rinvio a giudizio degli indagati, si deve avere un computer, una connessione e qualche dimestichezza con il web. E crediamo che a pensarla così sia la stragrande maggioranza del centrodestra, oltre ogni etichetta divisiva delle correnti interne. Serve solo un po’ di coraggio per ammetterlo e fare un passo avanti.