Poi dice l’antipolitica

Questi partiti sono finiti – tutti – e non lo capiscono. Sicuramente non lo capiscono Alfano e Bersani e Casini, che l’hanno ripetuto: il finanziamento pubblico non si tocca perché è ingiusto punire tutti i partiti nello stesso modo e perché c’è rischio di cadere in mano alle lobbies. Peggio di loro solo Di Pietro, che incassa i finanziamenti dalla fine degli anni Novanta (l’Idv ha investito 4,7 milioni in titoli, raccontava di recente Nicola Tranfaglia) ma ora parla di «restituire il maltolto» perché sennò gli italiani «arriveranno coi forconi». In Molise, forse.

Questi partiti sono finiti. Se il refrain che «è come Tangentopoli» appare giustificato forse per la prima volta, infatti, non è per le inchieste, ma per l’incomprensione dell’aria che tira nonché per la postura cannibalesca di chi si illude di raccattare i consensi politici smarriti dagli altri: esattamente come accadde nel 1992, quando ogni partito pensò di lucrare sulle disgrazie altrui e non comprese che l’alluvione avrebbe travolto tutti. Ma la logica dei vasi comunicanti è finita: non si comprende che i consensi attribuiti a Mario Monti e Beppe Grillo (entrambi due forme di antipolitica, seppur molto diverse) non sono in libera uscita, sono voti perduti dalla politica e dai partiti, e rischiano di non tornare più, perché sono l’anticamera di quell’astensione che rappresenta il primo e più grande partito che sta asciugando il Paese. Ora, sul bordo del fiume, gli imbelli attendono qualche voto perduto dalla Lega – che è più solida di molti altri – dove prima attendevano i voti dei centristi (i voti dei Lusi, diciamo) e prima ancora attendevano i voti di un Pdl narcotizzato: ma il fiume sta esondando, qualcuno direbbe che i nodi vengono al pettine ma che non c’è più il pettine. Berlusconi ombreggiava ciò che ora, di questi partiti, appare impietosamente esposto: che essi «sono» questo sistema elettorale e che «sono» soprattutto questo finanziamento pubblico, e pare arduo attendersi che abbattano o riformino ciò che sono. L’antipolitica in questo non c’entra: l’ha capito chiunque che il finanziamento pubblico serve essenzialmente ad alimentare gli apparati partitici, a stabilizzare questi gruppi dirigenti, a mantenere quei celebri «professionisti della politica» che l’opinione pubblica identifica coi mediocri e gli immeritevoli, sfuggiti alla competizione del vero mondo del lavoro.

I partiti sono nudi. La fiducia in loro, secondo Mannheimer, è al 2 per cento: ripeto, al 2 per cento, il che equivale a meno dei sostenitori e militanti dei partiti stessi; non vi ha fiducia neanche chi ci lavora. E non è per le inchieste, non c’entra il «punire tutti nello stesso modo», non è per l’illegale: è per il legale. È peggio. Perché è inutile scongiurare il vento dell’antipolitica «anticasta» – che resta un effetto, non una causa – quando ciò che lo ha generato è sempre e impunemente lì. Certo, ci sono i rimborsi calcolati sulla percentuale di voti e non sulla spesa effettivamente sostenuta (ciò che trasforma i partiti nelle sole aziende coi bilanci a posto, quando persino lo Stato non paga i fornitori) ma la fine di questi partiti è lastricata di ben altro: delle cariche nelle partecipate e nelle aziende municipali, dei soldi ai giornali di partito, delle quote dei cda delle fondazioni bancarie, delle cene elettorali, dei due euro per militante per chi vuole votare alle primarie, dell’incredibile serie di esenzioni fiscali e privilegi d’ogni sorta (buoni, viaggi, biglietti, inviti, sconti, tassi agevolati) sicché nessuno, ora, convincerà più gli italiani che questo è il prezzo della democrazia: non in un periodo come questo, non con in giro un Beppe Grillo che la gente vede semplicemente rinunciarvi.

Alfano e Bersani e Casini parlano del pericoli di cadere in mano alle lobbies: come se l’economia e la finanza non avessero già un peso imbarazzante e malcelato. Berlusconi ombreggiava anche le schiere di industriali e finanzieri e commercianti e banchieri (pardon, ex) che hanno stipato il Parlamento e foraggiano uomini e campagne, senza contare quelle lobby correntizie che sono rigorosamente le fondazioni o associazioni o centri studi, infarcite di sponsor e uomini e interessi. Se volete che elenchiamo le multinazionali, le cordate, le cooperative e le banche che foraggiano tutto questo (che foraggiano i partiti) non avete che da dirlo: anche perché, anche qui, è tutto legale e al tempo stesso tipicamente opaco. All’italiana.

Eccoli i partiti. Alfano e Bersani e Casini non comprendono palesemente i rischi che corrono: perché non comprendono, cioè, quello che tutti gli italiani hanno metabolizzato durante tutti questi mesi di crisi. Che la miglior cosa che i partiti hanno fatto per aiutare il Paese, ossia, è stato andarsene, tacere, eclissarsi. Che la miglior cosa che hanno fatto per aiutare il Paese, dunque, non è stato piazzare i loro uomini in un governo, ma toglierli. Questo hanno visto gli italiani. Gli stessi a cui Alfano e Bersani e Casini ora dicono: rimane tutto com’è.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera