Diffidate

Essere garantisti è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo: anche quando scorrono le immagini dei bastardi che hanno devastato Roma e anche quando ti vien voglia di scendere in strada a dar man forte ai poliziotti. Essere garantisti significa soltanto rimanere normali, freddi, ricordarsi che le leggi non possono essere stiracchiate secondo le scalmane del momento e che non si possono giudicarle troppo miti o troppo severe secondo fazione: perché è proprio questo che in Italia ha creato disastri inenarrabili e ha regalato eccessi di discrezionalità alla magistratura. Ed proprio in questo, pure, che dovrebbe sostanziarsi la fatidica indipendenza togata: badare alla lettera della legge e non a generiche «aspettative di giustizia», fregarsene degli applausi o dei fischi, dei giornali, delle famiglie dei ragazzi che siano studenti o celerini. Tutto questo per dire che se uno studente è incensurato, è incensurato; se ha la fedina penale pulita, beh, ce l’ha; la giostra delle attenuanti e delle aggravanti non è stata inventata solo per rendere complicato ciò che da casa ci pare semplice e liquidatorio.

Eppure ci sono opinionisti anche savi e moderati, in questi giorni, che di fronte alle scarcerazioni degli studenti e dei vandali adesso si scandalizzano e invocano «buon senso», dicono cioè che quanto accaduto «non può essere valutato solo col freddo bilancino del codice penale»: e allora con che cosa, di grazia? Che cos’è questo buon senso, qualcosa che va oltre la legge o permette di applicarla come ci pare? Che fai, prendi un 18enne incensurato e lo tieni genericamente in galera perché la gente è incazzata? È questa la «fermezza»? O dovremmo improvvisare delle leggi speciali e disgraziate, come quando si decise che in Italia c’era l’emergenza stupri (e gli stupri erano in calo) e allora s’improvvisò una norma anti-costituzionale che rendeva obbligatorio il carcere preventivo? I provvedimenti «esemplari» lasciateli invocare ai politici, a chi spia soltanto dove tira il vento: i magistrati sono tenuti a differenziare e a dare i domiciliari in un caso, chiedere l’obbligo di firma in qualche altro, vietare la dimora in città in altri ancora, liberare – in attesa di processo, beninteso – quando la legge lo prevede. È quello che è successo.

Perché forse non è chiaro, ma i ragazzi fermati non sono Black Block, non sono l’avanguardia che ha incendiato e distrutto, quelli che cioè hanno sicuramente compiuto dei gravi reati i quali – quelli sì – giustificherebbero la galera per pericolosità sociale: i ragazzi arrestati erano le seconde file rispetto ai più addestrati ed esperti che non sono stati presi, studentelli magari conformisti e magari cretini, gente colpevole più delle cose che dice che di quelle che fa. Non c’è stata nessuna «generalizzata scarcerazione», come ha scritto il Corriere della Sera di ieri, e mi spiace dire che anche l’apertura di Libero, ieri, era demenziale: «Hanno fatto venti milioni di danni e pestato 50 agenti: sono già fuori». Chi? Chi ha fatto i 20 milioni di danni, chi ha pestato 50 agenti? I 22 studenti totali fermati l’altro giorno, ragazzine comprese? E che erano, samurai?

Non dovrei precisarlo, ma io sto coi poliziotti: voglio che siano pagati di più, voglio che non siano mandati allo sbaraglio, che abbiano attrezzature adeguate, che non debbano affrontare criminali organizzati come se fossero cassintegrati della Fiat; ma voglio, nondimeno, che siano perseguiti se pestano e scalciano inutilmente un ragazzo riverso per terra, perché chi sorveglia il rispetto delle regole è tenuto a rispettarle più degli altri. Io non ho mai sentito tante cretinate generiche e disinformate come quelle mediamente pronunciate da questi studenti, perlomeno quelli che hanno avuto ampi spazio sui media; e nessuno ha diritto di dire che la mia rabbia, nel vedere le devastazioni romane, sia inferiore a quella di chiunque. Ma la magistratura, quella seria, si limita ad applicare le leggi fatte dalla stessa classe politica che ora se ne lamenta: e che spesso reclama delle pene neppure previste all’origine, o, peggio, reclama carcerazioni che fungano da «esempio» come nel peggiore dei regimi. Tutto per lisciarvi il pelo dalla parte giusta. Diffidate. Stanno soltanto facendo una parte in commedia.

(questo articolo esce su Libero, 18 dicembre)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera