La patente di sinistra

Lunedì 26 giugno ho ricevuto una mail da un commentatore di questo blog, che potrebbe quasi essermi padre per età:

Gentile Signora, buongiorno.

Alla luce della cocente e, per me, scontata sconfitta della sinistra del 4 marzo u.s., le feci notare le mie umili osservazioni del perché di tale sconfitta, concludendo con una battuta da toscanaccio (pupo/renzi) che lei non solo non ha compreso ma, per la stessa e per il fatto che le avevo detto di non aver votato, mi ha risposto alterata e altezzosa (comportamento consono alla maggior parte degli esponenti della sinistra i quali, senza se e senza ma, sono i soli ed unici depositari delle necessità del popolo e della nazione tutta. (…)

Oggi, lunedì 26 giugno, siete stati spazzati via anche da Massa, Siena e Pisa, da una destra forse becera ma che è andata nelle strade a sentire e capire (sfruttare?) le paure e necessità di noi poveri cristi.(…)

Mi permetto, senza volere offendere la sua intelligenza e la sua persona di darle dei consigli di lettura (…) Tutto questo, Signora Emanuela, perché io non voglio votare a destra ma voi, con la vostra puzza sotto il naso, la vostra superiorità (?) intellettuale mi avete costretto e avete costretto altri come me, stufi di essere presi in giro.

Buon lavoro, spero che riusciate a ricostruire un partito degno di tale nome.

Per farlo vi dovete sporcare mani e scarpe sulla strada e non alla Leopolda.

Gli ho risposto che pure io sono una povera crista; sono stata disoccupata per diciotto mesi fino a maggio, vivo in affitto in un pacifico rione abbastanza denso di case popolari e immigrati e ho sempre campato del mio lavoro. E che quindi me la deve spiegare, ‘sta storia della superiorità.

Leonardo Sciascia diceva: “I siciliani non cambieranno mai. Sono convinti di essere perfetti”. A me sembra che questa convinzione appartenga anche a tutti noi di sinistra. È tutta una corsa a controllarci l’un l’altro i punti sulla patente di sinistra. E a toglierceli, possibilmente. Quando invece, dovremmo tenere a mente che sono molte di più le cose che ci uniscono che quelle che ci separano. Ma pare non interessi proprio nessuno, trovare le affinità. Tutti con la penna a cerchiare le differenze. Se poi vogliamo misurarci tra di noi – e vogliamo – il metodo c’è, e si chiama congresso.

Ho ricevuto la convocazione, come gli altri mille delegati, all’assemblea nazionale del PD del 7 luglio che dovrebbe decidere se questo benedetto congresso si farà o no. Vedremo che succederà, dopo che i dirigenti nazionali sono rimasti quasi immobili dal 4 marzo in poi verso la maggioranza e il governo, ma molto impegnati a competere dentro la zona di comfort del partito e del centrosinistra per spintonarsi a vicenda, nella speranza che altri precipitino e che loro riescano a sopravvivere sul podio.

Fuori da quella zona di comfort rimane ancora tutta da costruire un’opposizione e un’alternanza ad un governo dell’arrembaggio, composto da una maggioranza ibrida e ossimorica, mal assortita, risultato di un assemblaggio apparentemente debole ma che in realtà le consente di essere mobile e galleggiare, va a capire per quanto tempo.

Il disallineamento delle vecchie culture politiche dai nuovi modi di essere e vivere ha prodotto un processo di fusione e trasformazione nella società e una rottura del bacino elettorale di sinistra, da cui gli elettori sono usciti in massa per fluire in acque più fredde. Impossibile – e forse anche inutile – ricostituire quei bacini e chiedere agli elettori di tornare controcorrente, a meno di non considerarli salmoni da pasturare.

La maggioranza ossimorica funziona perché pure noi italiani siamo spesso una contraddizione ambulante: vogliamo il cibo a km zero ma non i fanghi in agricoltura, le piste ciclabili e i centri storici chiusi al traffico, ma parcheggiare ovunque col Suv, usare l’e-commerce e la consegna dei pasti a domicilio ma senza spese di spedizione né pagare un sovrapprezzo per la consegna del fattorino, possibilmente ventiquattro ore su ventiquattro, festivi inclusi, gridando allo scandalo del lavoro domenicale per i dipendenti della grande distribuzione.

La politica non è più il supermercato dove trovi tutto (il partito col patronato, le feste e l’assistenza fiscale); è un negozio di vicinato o un e-commerce, e nel carrello della spesa politica finisce solo ciò che serve.

Il 40% di Renzi alle europee è stato anche prodotto dallo stesso meccanismo che ora interessa il M5S e la Lega: una parte considerevole dell’elettorato mette nel carrello la proposta politica che sembra promettere il cambiamento più rapido e indolore, o addirittura vantaggioso per le loro tasche.

La gente vota Salvini perché vuole politiche di destra, mica per dare un segnale: un segnale lo mandi una volta, quando continui a emetterlo diventa un codice di comportamento.

Stiamo camminando su uno smottamento globale che va dalla Brexit al governo di minoranza spagnolo, dall’imposizione dei dazi di Trump all’Europa, passando per i governi omofobi, xenofobi e sovranisti a varia gradazione di Polonia, Ungheria, Austria.

I giallo-verdi hanno fatto accordi con Putin, hanno applicato tecniche della disinformacija professionale, la psicometria per le Facebook Ads eccetera, e noi pensiamo a rideterminare il numero dei circoli PD?

Fare politica con chi si muove a suo agio nella guerriglia digitale è come scendere in un campo di tiro militare con le racchette da ping pong. Ci fai pure la figura del cretino.

In questo scenario, non basterà il congresso del Partito Democratico per rimettere in sesto le cose e neppure il suo scioglimento, a seconda di come la pensiate.

Serve ripensare la sostanza, la forma e il metodo. Serve rinnovare la dirigenza, ma anche ampliare la base degli attivi: non possiamo in nome di chi già c’è, non allargare ad altri, non essere inclusivi, utilizzando nuovi metodi e maggiori connessioni.

Essere di sinistra è lavorare perché l’Italia diventi davvero un paese attrattivo per i capitali stranieri e i talenti migliori e non respingere i disperati.

Essere di sinistra non è badare ai propri interessi, ma tutelare i diritti degli altri, soprattutto quando stanno peggio di te.

Essere di sinistra è coltivare la profondità e l’apertura, non la chiusura e la paura.

Essere di sinistra è una scelta individuale, prima che collettiva. È decidere da che parte si sta.

Senza dare patenti, né togliere punti.

Emanuela Marchiafava

Media Analyst e consulente per le imprese, già assessore della Provincia di Pavia, si occupa di turismo, politica e diritti.