Seinfeld, uno show su niente

È possibile che un comico che oggi 29 aprile compie sessant’anni, e che in realtà ha smesso di essere popolare quindici anni fa, sia considerato ancora il miglior comico sulla piazza? È possibile che uno show basato sul niente con quattro personaggi tutto sommato abbastanza anonimi – thirtysomething che vivacchiano nell’Upper West Side e non hanno grandi idee sul mondo né convinzioni tali da dare battaglia – possa essere considerato ancora adesso, a vent’anni di distanza, la migliore trasmissione di tutti i tempi? È possibile.

Chi ha visto almeno una puntata di Seinfeld lo sa. Andata in onda per la prima volta nel 1989 dalla NBC e conclusa dopo 9 stagioni nel 1998 (l’ultima puntata fu vista da 76 milioni di spettatori), Seinfeld rappresenta una pietra angolare nella cultura statunitense, imparagonabile come impatto, nella concezione stessa di che cosa vuol dire costruire una trama o dei personaggi, a nessuna seria pure leggendaria, come I Robinson o I Jefferson, o persino I Simpson o Star Trek. La popolarità (4 milioni e mezzo di fan su Facebook, 5 milioni di dollari a episodio offerti a Jerry Seinfeld per interpretare un’altra stagione) non riesce nemmeno in realtà a dare conto della profondità ineguagliabile della sitcom inventata da Jerry Seinfeld e Larry David. Una verticalità che è tutta in un’intuizione orizzontale. L’idea di fare un programma sul niente (questa la tag line con cui si presentarono alla NBC), in cui non ci sono insegnamenti, i personaggi non si evolvono, e i Grandi Valori sociali sono blasé. Se c’è qualcosa che ha assorbito la rivoluzione postmoderna di Pynchon o Barthelme e ne ha fatto una magnifica rappresentazione visiva quello è Seinfeld.
Per dieci anni Jerry, George, Elaine e Kramer, i quattro amici-vicini di casa protagonisti della serie, sono stati capaci di discutere sull’etica del mondo, non affermando mai una netta posizione propria e svelando l’assurdità della gran parte dei comportamenti umani più banali.

Cosa vuol dire fare un programma sul niente? Prendete la puntata che viene spesso citata come la più rappresentativa di questa poetica, l’undicesima della seconda stagione intitolata The Chinese Restaurant. Cosa accade nei ventitré minuti circa ? Beh, che George, Elaine e Jerry sono in fila a un ristorante cinese. Il ristorante è pieno, e loro aspettano. Punto. Sì nel frattempo c’è George che deve fare una telefonata e la cabina pubblica è occupata, mentre Jerry pensa di aver visto una persona che non vuole salutare. Ma è tutto qui, fine del riassunto. Questa, questa puntata nihilocentrica, come dire, fu una puntata di svolta della serie, ed una delle cose più belle che vi possa capitare di vedere in televisione.
Ma Seinfled ha fatto di più, e rivedere oggi (acquistando i dvd in lingua originale o doppiati, in streaming, o scaricandole) le 180 puntate del programma può essere una delle esperienze più utili per farci entrare in contatto con quello che è stato prodotto nell’arte contemporanea per quello che riguarda la rappresentazione della vita quotidiana, e non solo per gli Stati Uniti. Seinfeld è il nostro realismo: personaggi logorroici, verbigeranti, sempre un po’ paranoici, fragili, spesso anaffettvi, maniacali, ma molto molto simpatici. In queste nove stagioni ha indagato con una capacità diagnostica veterotestamentaria le piccole regole sociali, le ha discusse una a una, e ha di fatto creato un codice linguistico in base al quale queste regole possono essere trattate. E questo ovviamente non riguarda solo Seinfeld, ma molto di ciò che stato prodotto dopo Seinfeld. I virtuosistici dialoghi di Tarantino sulla cultura pop non sarebbero esistiti senza Seinfeld, gli stand up comedians degli ultimi 20 anni sarebbero stati completamente diversi, il Doctor House e la comunicazione politica di Obama non sarebbero stati pensabili… Forse solo la brutta commedia italiana ne ha potuto bellamente fare a meno.

Ma c’è dell’altro. Una delle verità più incontrovertibili che ha affermato Seinfeld è il fatto che le famiglie non sono più il centro della vita relazionale (pensate quanto debito: da Beverly Hills 90210 a Friends). La società è già liquida per Jerry, Elaine, George e Kramer, e nessuno sente nostalgia per un tempo in cui c’erano focolari, comunità solide, gerarchie. Single, emancipati, immaturi, egocentrici, laici, in fondo anche disfunzionali senza saperlo e senza crucciarsene. Un’altra delle caratteristiche fondamentali è l’assenza di un contenuto tragico: niente è realmente serio, né la morte, il dolore, la malattia mentale… Forse ha indicato la via, come avrebbe detto Foster Wallace, per l’affermarsi del peggiore zeitgeist dei tempi sarebbero venuti, una società devota a un’ironia pervasiva e inaggirabile; fatto sta che suggeriva come il sentimentalismo sostituto delle ideologie fosse una malattia sociale ancora peggiore e dieci anni di reaganismo l’avevano ben dimostrato. E certo paragonatela con le serie del passato prossimo, in cui la comicità rivelava un lato umano, più intenso e emotivo della condizione umana; qui, se questo è vero lo è perché la condizione umana non ha profondità ma solo superficie: non c’è un lato oscuro che non viene alle luce, niente inconsci da quattro soldi, ma – come dire – noi siamo la nostra lingua, le parole indicano tutta la nostra responsabilità, e la nostra capacità di essere in relazione. (Quanto debito qui? Da The office a Paul Thomas Anderson)

Inoltre chi ha guardato anche una sola puntata, capisce perché può essere stata una serie così popolare: perché lo è. Perché nonostante metta in scene la vita di un gruppo di intellettuali di sinistra liberal, questo non è mai enfatizzato; sembra di assistere veramente invece alle vicende dei nostri vicini di casa alle prese con quanto di più comune possiamo immaginare. E se è vero che in Italia Berlusconi ha trovato gli elettori per il suo partito dopo averli catturati per quindici anni con le sue tv commerciali, potremmo dire che anche Obama ha incarnato la forma di politica che milioni di persone formatesi su Seinfeld & co. riconoscevano come propria. Un ceto medio, il cui vero collante sociale è l’immaginario culturale televisivo, che non si fa molte domande sulle grandi questioni del mondo, ma che s’interroga se il cibo bio faccia veramente bene, se le segreterie telefoniche servano a qualcosa, se i videogiochi ci rubino troppo tempo… Sono questioni morali per cui le grandi agenzie formative del Novecento (quelle che la fine del secolo ha messo in crisi), ossia la scuola, la famiglia, le chiese, i partiti non c’hanno preparato; e l’unica soluzione quindi è provare a chiedere agli amici.

Inoltre Seinfeld è un precario. È un lavoratore dello spettacolo, fa il comedian, probabilmente oggi qui da noi lavorerebbe a partita iva, o sarebbe pagato in nero. Se non fosse così, noi – spettatori di venticinque anni dopo, noi dall’altra parte dell’Atlantico – non proveremmo quest’identificazione forte. Se non fosse così, non sarebbe stato così popolare – nell’America iperdomestica, dei personal computer, della teledipendenza, e delle pensioni private. Se non fosse così, Louis CK (indiscutibile e consapevole erede di Jerry Seinfeld) non avrebbe scelto per la sua serie, la splendida Louie, lo stesso identico meccanismo.
Creando questo consenso, essendo così inconsciamente gramsciano, così nazionalpopolare, Seinfeld è riuscito a trasformare naturalmente la propria comunità di spettatori – che erano soprattutto giovani – in persone che sui temi civili avevano idee molto più aperte della generazione precedente, un’avanguardia politicamente trasversale: dall’omosessualità al multiculturalismo alle questioni di genere, per Jerry e gli altri non sono mai problemi sociali, ma semplici pretesti per una discussione, un modo per affrontare senza prosopopea quello di cui si discute in società, nella classe media, tra vicini di casa; e le posizioni che i personaggi prendono portano sempre il dibattito al di là del merito, giungono a considerare che le questioni che ci sembravano sociali, sono in realtà interrogativi sulla condizione umana; e in questo certo l’origine ebraica della sua comicità è importantissima.

E poi soprattutto Seinfeld fa ridere. Fa spanciare. Ha una qualità comica sempre alta, costante, mimica e linguistica, paradossale e realistica.
Quindi auguri al suo inventore, e a chi ha la fortuna di non averla mai vista. Lo invidio. Ha 75 ore circa di roba da ingurgitare quando vuole.

Christian Raimo

Christian Raimo è nato (nel 1975) e cresciuto e vive a Roma. Ha studiato filosofia e ha pubblicato per Minimum Fax due raccolte di racconti: Latte (2001) e Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004). È un redattore di «minima&moralia». Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia.