‘A battuta me piace…

Quando a sedici, a diciassette anni, nelle giornate infinite in cui si poteva cominciare a scegliere a cosa assomigliare, mentre non imparavo a suonare la chitarra, mentre non portavo le cuffie giorno e notte alle orecchie, mentre rimanevo dubbioso se lasciarmi trasportare da coloro che indossavano camicie a quadrettoni o magliette con su scritto Never mind the bollocks o si facevano crescere i dread, scovai invece, tra i figli del ceto medio arricchito dagli anni ’80 e impoverito dai ’90 di un liceo di periferia, le persone con cui condividere una mitologia privata che mi ero ritagliato, convinto, forse convinto sì, che il mio senso di affratellamento non sarebbe passato dalle urla lanciate insieme di Come as you are o dall’ascolto compulsivo dei Dream Theater, ma dall’amore che nutrivamo per persone come Angelo Bernabucci.

Angelo Bernabucci, che ieri è morto a Roma a 70 anni, (ne ha dato la notizia Marco Giusti, che è uno dei pochissimi critici che ha saputo riconoscere il talento di questo genere di attori, e qui lo ricorda) è stato uno dei miei miti assoluti in quell’età di mezzo, un membro di quello che, a distanza di tempo, e con un affetto che non è quasi più pervaso di ironia, potrei definire una specie di brat pack dei caratteristi romani: lui, Mario Brega, Ennio Antonelli, Milly Corinaldi e pochi altri. Scoperto da Carlo Verdone secondo racconti che poi divenivano parte integrante della stessa mitologia, la sua interpretazione di Walter Finocchiaro in Compagni di scuola era una delle performance attoriali che occorreva – mi viene da dire occorre – sapere a memoria per conquistarsi la complicità di quelli che consider(av)o i miei veri amici.

Dalla scena dell’epifania con Fabbris (Fabio Traversa) alla presa in giro di Postiglione (Luigi Petrucci) al cameratismo con Ciardulli (Cristian De Sica) interrotto appena perde a poker: “Famo er pokerino, famo er pokerino, poi co’ tre ganci te cachi sotto?”, “Rimettite le mani in testa”, “Ahò, m’arendo, e chi dovresti da esse te?”, “Fabbris, ma che me stai a pià per culo ahò?… Te c’hai avuto un crollo, doo ottavo grado dea scala Mercalli però”, “Oh, l’invito dice ore diciotto, mancheno cinque minuti, ‘nce ne frega gnente, annamo”, “Oh, ma do ll’hai rubbati sti fiori, su una tomba? Anvedi quanto so brutti ahò”, “Anvedi, pure la fotografia… guardate com’eri, guardate come sei… Me pari tu zio!”, “Ah, Fabbris senti se te piace questa, a me me ricorda ‘n sacco de cose, ‘n sacco de donne… Gnente eh… Ma ‘n c’andavi mai ae feste, te?… Nte invitaveno, eh?”…”

Per anni le mie conversazioni si sono svolte quasi esclusivamente pescando tra queste citazioni, “No, Luca, c’è n’eccezzione, che conferma la regola, mo te me devi dì chi è quello. ‘N c’hai trenta secondi, te do na settimanaaa!”, “È tremendo, è da denuncia, uno ‘n se pò presenta ridotto così, devi mannà ‘n certificato, ma duu ufficio d’iggiene pperò!”, “No, de profilo, noo posso vedè, portatelo, portatelo viaa!”, fino a arrivare alla definitiva “Ma io sono fatto così, ‘a battuta me piace, ‘n ce posso fa gnente” – ossia la massima che era per noi al tempo una specie di imperativo categorico e che per me, per molti versi, lo rimane ancora.

Credo di aver passato intere feste o intere giornate a scuola a non pronunciare altro che queste frasi, insieme a quelle di Manzotin interpretato da Ennio Antonelli in Febbre da cavallo; a quelle di Mario Brega in Bianco, rosso e Verdone, Un sacco bello e Borotalco; a quelle di Milly Corinaldi in questa scena del volo di Pappa e ciccia (“Signorina, mi scusi c’è il pranzo a bordo?”, “Sì, che vòi, semi o lupini?”); a quelle sempre di Angelo Bernabucci in Fratelli d’Italia (“Mortacci loro e de chi non je lo dice co la mano arzata e sartellando“).

La volgarità sfrenata di Bernabucci & co. era una specie di viatico contro il destino piccolo-borghese a cui sembravamo, anche così giovani, già condannati. Per questo era anche più ammirata e citata di quella (sublime beninteso) di Tomas Milian o di Bombolo, perché era sempre antifrastica, arrogante contro, cinica e non bonaria, non popolare tra il popolo, ma insultante contro l’affettazione, approssimativa, scaciata, persino un po’ fascista si sarebbe detto se Mario Brega non avesse pronunciato una assoluta chiarificazione a nostra eterna garanzia: “Fascio a me?”.

Quando a sedici anni facevamo il giornalino della scuola, i nostri primi tentativi d’intervista furono quelli di far parlare i nostri miti. Ennio Antonelli abitava a Talenti, al piano terra di un palazzo a via Nomentana 861R dove viveva un mio molto caro amico; ma a quel tempo aveva già subito un ictus e parlava con difficoltà – continuò a interpretare altri film dove poteva ancora giocarsi tutto sulla sua credibilità della sua faccia, ma era doppiato. Di Milly Corinaldi provammo a cercare il numero di telefono chiedendo al 12; evidentemente non era era registrata o era registrata sotto altro nome. Mario Brega invece rispose al telefono, era l’unico Mario Brega sull’elenco, e lo andai a incontrare con un altro mio amico che aveva la telecamera: ci accolse nella sua casa a via Oderisi Da Gubbio, casa dove c’aveva accompagnato in macchina mio padre. Ci raccontò una gran quantità di aneddoti tra cui la famosa origine della scena di Borotalco con “Arzate, ‘nfame, arzate”. La cosa che notai era che usava sempre e solo la seconda persona singolare: se doveva riferirsi a qualcuno, lo chiamava in causa dandogli del tu. Per esempio aveva litigato con Cristian De Sica a suo tempo, e diceva “Cristian De Sica non ti debbo riincontrare”, come se De Sica fosse lì davanti a noi.

Alla fine dell’intervista, siccome pioveva, Brega ci chiese com’eravamo venuti e quindi ci chiese se potevamo accompagnarlo al garage; scese insieme a noi, s’infilò davanti in macchina accanto a mio padre, noi dietro. “Buongiorno”, disse mio padre, “piacere”. “Ciao”, disse Mario Brega, strascicando la ci e la o, più una roba tipo “Sciaooo”. E quando arrivammo in cima della salita del garage, mio padre chiese: “Vuole che la accompagno giù?”, e Brega: “E che me vuoi lascià qua?”. Non so che fine fece quell’intervista, non la sbobinammo e non la pubblicammo nemmeno, però ci fornì materiale da racconto per almeno un anno.

Telefonammo anche a Angelo Bernabucci, insistemmo per un’intervista, ma – a quel che ricordo – lui non volle farla. Non gli piaceva nemmeno troppo fare l’attore, credo. O comunque era una cosa che gli era capitata – nel 1988 aveva esordito proprio con Compagni di scuola – e che ogni tanto faceva, ma che non si era scelto. Una ventina di film, tra commedie commerciali e fiction per la tv. Niente di memorabile, viene da dire, se non per il fatto che mi posso ricordare tutti i momenti in cui da bambino diventavo un ragazzo e a parlare non era la mia voce, ma quella sfrontata, impietosa, piena, di Angelo Bernabucci.

Christian Raimo

Christian Raimo è nato (nel 1975) e cresciuto e vive a Roma. Ha studiato filosofia e ha pubblicato per Minimum Fax due raccolte di racconti: Latte (2001) e Dov'eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro? (2004). È un redattore di «minima&moralia». Nel 2012 ha pubblicato per Einaudi Il peso della grazia.