Sallusti e la tempesta perfetta

Conosco il caso Sallusti perchè uno dei miei soci di studio difende il magistrato diffamato. Non ho pretese di obiettività. Le considerazioni che mi sento di fare si basano esclusivamente su ciò che siamo costretti a leggere da venerdì su tutti, tutti, i giornali.

La tempesta scatenata da Il Giornale è la tempesta perfetta.

I protagonisti sono perfetti.
L’imputato: un noto giornalista, anzi il Direttore di un importante giornale, amato o odiato, da sempre impavido combattente, che nelle sue esternazioni pone i confini della libertà di stampa molto avanti, spesso a cavallo dell’altrui reputazione. Ma si sa, la libertà d’espressione ha confini mobili e incerti.
Come giornalista, è comunque vestale del sacro diritto all’informazione.
La parte offesa: un giudice che ritiene lesa la propria reputazione per due articoli “forti”, basati su notizie che erano già state ufficialmente smentite dalle agenzie di stampa. Ha subito danno e si rivolge ai suoi simili per aver giustizia. Quella giustizia amministrata da magistrati che per alcuni giornali sono una casta di intoccabili (per giunta politicizzati), e per altri i salvatori della patria, garanti della legalità.

L’antefatto è pure perfetto.
Una minorenne, l’aborto, il diritto alla vita; visioni laiche e visioni confessionali, su temi che agitano le nostre instabili coscienze.

Anche l’epilogo è perfetto.
Si sente lo stridore delle catene. Il Direttore, e con lui la libertà d’espressione finiranno in galera mercoledì, se la Cassazione non ripara l’inciviltà.

E così si alza la tempesta, e l’Italia diviene la Corea del Nord, simile alla fallita Unione Sovietica come scrive Feltri.
Si assiste alla straordinaria convergenza de IlFattoQuotidiano con Il Giornale.

Sebbene io condivida ogni allarme per ciò che può minacciare la libertà d’espressione e di informazione e ritenga necessaria una profonda riflessione sul reato di diffamazione a mezzo stampa nell’epoca di internet e dell’ipercomunicazione, in questa tempesta qualcosa non torna.
Sallusti a detta di Feltri è stato condannato “a sua insaputa”.
Questa ci mancava. Avevamo le case, le vacanze, gli affitti e le ristrutturazioni “a mia insaputa”, ma il processo no. Esiste il processo “in contumacia”, ma è cosa diversa dal processo “a mia insaputa”
In questa vicenda infatti si è arrivati al terzo grado di giudizio. Sallusti con i suoi difensori (distratti o meno che fossero) ha proposto appello dopo la condanna di primo grado e poi, a seguito dell’appello, ha nominato un nuovo difensore e fatto ricorso per Cassazione. Com’è che lui non ne sapeva nulla?
Io credo possibile che Sallusti non sapesse nulla della sua condanna.
Ce lo siamo detti mille volte in studio, con Monica Senor, che difende il magistrato diffamato: com’è che Libero non risarcisce il danno chiedendo di rimetter la querela come accade usualmente nelle diffamazioni a mezzo stampa? È raro che si arrivi alla condanna penale per un articolo diffamatorio. Possibile che Sallusti se ne freghi con una condanna così? Ma lo saprà?
Il fatto che il Direttore responsabile di un quotidiano non sappia del processo e neppure della sua condanna, in due gradi di giudizio, e si limiti a nominare gli avvocati (ed ognuno sceglie chi ritiene), non è fatto da poco. E’ il segno di un’irresponsabilità che contraddice il ruolo.
La frase “a mia insaputa”, è stata negli ultimi tempi l’arrogante difesa, spesso comica, di chi invece doveva sapere. Il caso di Sallusti non è poi molto diverso, e prima di stracciarsi le vesti per la libertà di stampa, qualche riflessione bisognerebbe farla .

Il sospetto è che, almeno in alcune realtà editoriali, i danni da diffamazione siano gestiti come un costo “ordinario” e fisiologico della macchina mediatica. A dispetto di ogni responsabilità personale o di ruolo, ai Direttori non filtra neppure la notizia della loro condanna. Tanto usualmente tutto si risolve in un calcolo banale di costi/benefici. L’editore paga e se querela vi era stata, viene ritirata.

Il rischio è che, senza responsabilità personali (che non necessariamente debbono esser penali, su questo si discuta pure) le possibili diffamazioni dipendano da un mero calcolo di conto: dalle vendite o dalle convenienze dell’editore, per qualsivoglia fine.
La macchina del fango che appassionava alcuni mesi fa molti giornalisti oggi indignati, è figlia di questa impostazione.

Non è questo il modello da difendere per proteggere la libertà di stampa.

La condanna inusuale di Sallusti ha poco a che vedere con la libertà di espressione o con la libertà di stampa e molto a che vedere con l’irresponsabilità, un po’ arrogante, che si cela dietro la frase “a mia insaputa”.

Sallusti è il Direttore Responsabile di un giornale che pubblica un articolo violento, basato su fatti già smentiti dalle agenzie di stampa: nessuno, neppure in questa tempesta perfetta dubita della diffamazione. Il pezzo è pubblicato con uno pseudonimo, Dreyfus. In zona cesarini si scopre che l’autore è, forse, un giornalista radiato, Farina, a cui il direttore aveva concesso nonostante la radiazione le pagine del suo giornale. Per aver “collaborato” in quel periodo con Farina nonostante la cancellazione dello stesso, Sallusti è stato nel 2011 sospeso per due mesi dall’Ordine.

Adesso, nella tempesta creata ad hoc, leggiamo che di questa sentenza incivile son responsabili tutti: i politici che attentano alla libertà di stampa non depenalizzando il reato di diffamazione (ma solo quello a mezzo stampa, si badi), gli avvocati che non sanno fare il loro mestiere, la magistratura che si auto-protegge. Leggiamo che si finisce in galera per responsabilità oggettiva (ed è una bestialità giuridica), per un articolo di cui non si è autori (ma i direttori responsabili sono…responsabili).
Infine leggiamo che il processo è stato “a sua insaputa”.

Dunque dobbiamo concludere che, se solo Sallusti avesse saputo: i) avrebbe evitato che un giornalista radiato scrivesse sul giornale di cui era il direttore responsabile; ii) avrebbe evitato che il radiato scrivesse articoli diffamatori; iii) nel caso poi che avesse saputo che, a sua insaputa, ciò era avvenuto nel giornale di cui egli era responsabile, avrebbe certamente detto chi era l’autore, oppure -non potendolo dire poiché l’autore era radiato- iv) avrebbe come d’uso pagato il danno ed ottenuto la remissione della querela, prima o durante il processo. Se solo avesse saputo che c’era il processo. Ma era solo il Direttore Responsabile della Testata. Non lo sapeva.

La diffamazione lede un patrimonio personale che oggi è, se possibile, più prezioso di quanto non fosse prima del web. In questo tempo di ipercomunicazione, tutti abbiamo grande cura della nostra immagine: siamo sui socielnetwork e pretendiamo giustamente un alto livello di protezione per i nostri dati. Questo perchè i nostri dati sono le nostre informazioni, che sono la nostra immagine che è la nostra reputazione.

La libertà di espressione e la libertà di stampa si difendono meglio, soprattutto sui giornali, se non si difendono anche le violazioni dei diritti altrui. E dei propri doveri, anche di quello di sapere.
Dopo di che si discuta pure dell’adeguatezza di questa o di quella sanzione e del pan-penalismo che pervade la nostra scalcagnata legislazione.

Carlo Blengino

Avvocato penalista, affronta nelle aule giudiziarie il diritto delle nuove tecnologie, le questioni di copyright e di data protection. È fellow del NEXA Center for Internet & Society del Politecnico di Torino. @CBlengio su Twitter